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Elezioni di medio termine: lo spaccato di un'America divisa

L’anno scorso, di questi tempi, ci interrogavamo sull’evoluzione che ha subito l’immagine degli Stati Uniti nel corso degli ultimi decenni, a fronte del primo anniversario delle presidenziali vinte da Biden, restando tra l’altro sorpresi di scoprire dai sondaggi che l’ondata di ottimismo post Trump stava già vedendo i suoi titoli di coda. A distanza di un anno, ci troviamo ad analizzare per certi versi una situazione più intricata.

Chiuse le consuete elezioni di metà mandato, incontrando i suoi sostenitori all’Howard Theatre di Washington, Biden ha annunciato: “Un bel giorno per l’America e la democrazia e una forte serata per i Democratici”, festeggiando in un certo senso la vittoria (morale) dei democratici.

Andiamo con ordine. Lo scorso 8 novembre, come di consueto, oltre 40 milioni di americani hanno votato per eleggere i rappresentanti della Camera più un terzo dei senatori, oltre che i governatori di 36 Stati. Si affermano così le elezioni di medio termine con il maggior numero di voti anticipati, oltre che le più dispendiose in termini economici, con 17 miliardi di dollari spesi per la campagna elettorale.

Ci si aspettava un’ondata rossa.

Vista la discesa dell’indice di gradimento di Biden al di sotto del 40% e dato l’andamento dei sondaggi, una vittoria schiacciante del Grand Old Party (GOP) - il partito repubblicano – sia alla Camera che al Senato era data quasi per scontata. Per di più, storicamente, l’esito delle midterm elections non è di norma favorevole al presidente in carica.

Lo dice l’“American President Project”, uno studio dell’Università della California Santa Barbara: considerando il periodo compreso tra il 1934 e il 2018, nelle elezioni di metà mandato il partito del presidente in carica ha perso in media 28 seggi alla Camera e 4 al Senato e soltanto in 2 occasioni il partito del presidente è riuscito ad aumentare i seggi in entrambi i rami del Parlamento. Eppure, questa vittoria schiacciante, a conti fatti, non c’è stata.

Dopo aver atteso i risultati di Nevada ed Arizona, gli “swing states” o “stati altalenanti”, abbiamo i risultati, anche se aspettiamo ancora la Georgia, dove proprio in questi giorni si dovrebbe votare per il ballottaggio.

Il GOP riconquista la Camera a distanza di quattro anni con una maggioranza risicata, ottenendo i 218 voti ad otto giorni dall’8 novembre, potendo in questo modo mettere potenzialmente in difficoltà l’agenda Biden (anche se visti i risultati elettorali, molto probabilmente sarà necessario il sostegno bipartisan per alcune leggi).

Il Senato è stato invece una corsa all’ultimo seggio, dove i democratici alla fine l’hanno spuntata grazie al Nevada e grazie anche al voto della vicepresidente Kamala Harris. Cruciali anche Stati come Pennsylvania – dove il democratico Fetterman alla fine ha battuto il repubblicano Oz – e Wisconsin, Stato piuttosto disomogeneo nella sua composizione elettorale e che nel 2016 si è aggiudicato l’etichetta di swing state, per aver dato fiducia a Donald Trump, abbandonando la sua storica fede democratica.

Significativa qui, in queste elezioni, è stata la leva sull’inflazione, che in uno stato rurale e manifatturiero come il Wisconsin ha avuto un peso decisionale decisivo, nonostante l’apparente aria di pareggio che davano i sondaggi.

I democratici festeggiano perciò questa vittoria morale, o per meglio dire questa “non sconfitta”, ottenuta più per demerito dei repubblicani che per loro merito.

Mai come questa volta c’è stata una campagna elettorale dove ognuno dei partiti ha spinto sui temi intrinsecamente caratterizzanti la loro natura.

Per il partito rosso, centrale è stato il tema economico, in particolare dell’inflazione, che negli stati più centrali, manifatturieri e lontani dal benessere delle grandi città ha avuto particolarmente presa. I democratici, invece, hanno puntato tutto sul tema del rischio della democrazia, facendo leva sui diritti civili e in particolare sul diritto all’aborto, scelta che alla lunga ha ripagato l’impegno. Se non altro per le sue modalità.

Il grande problema del partito repubblicano è stato infatti l’aver posto in prima linea nomi molto all’estremo, oltre al fatto che è sempre più evidente la divisione interna tra il ramo super trumpiano e i repubblicani “vecchio stampo” à la Bush, per intenderci.

E probabilmente, l’impressione generale del risultato di queste elezioni è stata quella di una sorta di volontà di “protezione” generale dal rischio di un danneggiamento della democrazia, visto soprattutto nell’ala di Trump.

Il risultato elettorale, più che un referendum sull’operato di Biden, si è rivelato infatti una sorta di banco di prova per l’ex presidente, la cui notevole visibilità in queste elezioni da ex capo di Stato (seppur rara in questi contesti) alla fine si è rivelata un’arma a doppio taglio.

Sicuramente, al di là dei risultati, queste midterm hanno un ruolo decisamente esplicativo della società americana odierna, e oltretutto ci mettono di fronte all’evidenza dell’evoluzione della sostanza dei partiti stessi.

Che la politica americana abbia subito una polarizzazione graduale ma sostanziale negli ultimi 60 anni oramai è chiaro. Tuttavia, è interessante notare come a questa polarizzazione politica sia conseguita in realtà una radicalizzazione partitica zoppa.

Mentre il partito democratico è rimasto quel grande ombrello che accoglie un range di posizioni politiche che vanno dalla sinistra radicale alle posizioni più centriste, il partito repubblicano ha subito di recente una radicalizzazione sia nei programmi che nelle pratiche, come appare particolarmente evidente nell’era Trump e nel suo attuale lascito.

Parte del successo di Biden in questa campagna elettorale è stato proprio puntare tutto sull’orgoglio americano, su dei valori fondanti per la società che vanno a toccare il nervo scoperto del “sogno americano”, l’America della democrazia e delle grandi possibilità.

Il punto però è proprio questo.

Se il punto di forza di Biden è fare leva solo sull’alternativa che si presenta, si palesa in questo modo anche la sua debolezza politica.

Non si può negare che il Presidente sia infatti in parte il risultato dei fatti del Campidoglio del gennaio 2021, e che tutto sommato non si sia rivelata una presenza così forte come invece si sperava. È stato piuttosto il risultato di una scelta di fiducia degli americani nei confronti delle istituzioni, a fronte della minaccia trumpiana, che alla lunga ha danneggiato i repubblicani stessi.

Non sorprende come in alcuni Stati, ad esempio, nelle primarie per le elezioni dei governatori, ci siano stati candidati democratici che abbiano sostenuto strategicamente dei candidati dell’ala di Trump per guadagnarsi una vittoria “semplice” nelle elezioni vere e proprie.

Queste elezioni si rivelano particolarmente importanti non soltanto perché fanno da apripista per le presidenziali, regalandoci uno spaccato del sentimento generale americano, ma soprattutto ci danno anche un’indicazione approssimativa di come si muoveranno le parti politiche all’interno delle istituzioni nazionali.

In altre parole, quanto (poco) spazio di manovra avrà ciascun partito per indirizzare la politica interna ma anche e soprattutto internazionale.

Le partite su cui gli Stati Uniti sono coinvolti sono tante: pensiamo all’Ucraina ma anche il tentativo di un accordo sul nucleare con l’Iran.

Senza contare la concorrenza con la Cina. Visto il peso americano nell’equilibrio atlantico e la sua figura di guida all’opposizione russa, alla fine difficilmente le opposizioni politiche interne porteranno un cambio di rotta nella linea politica internazionale. Resta il dubbio su quanto di questa fotografia americana sarà proiettato oltreoceano.


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