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Luigi Musacchio

Enzo Cucchi e la transavanguardia

Vedere in forme plausibili il non visibile, al di là di ciò che si vede: è quanto stabilisce il Deus ex machina in materia di produzione artistica; e non si smentisce neppure allorché un bambino prende in mano un lapis e traccia sulla prima superficie a disposizione algoritmi della nascente fantasia estetica.


Enzo Cucchi

Con gli artisti “professionisti”, che sia un lapis, un pennello, uno scalpello, o quant’altro – la modalità non conta – la fenomenologia creativa è la medesima. Si spiega così, almeno in parte, il “portato” che poi cade sotto gli occhi dell’ignaro osservatore, che, a sua volta, non si dà pace se prima non ha dato un senso, un significato a ciò che vede.

Enzo Cucchi (1954), al riguardo, è un “maestro” coi fiocchi: i suoi disegni, le sue pitture e sculture, restano terre inesplorabili e, tuttavia, conservano un “non si sa” che sorprende, attira e, alla fine, affattura. Solo le sue poesie conservano e consentono un senso nella lettura e nella comprensione, come, per esempio nella lirica “Il mare”, compresa nella raccolta Il mare che sei nostro, pubblicata nel 2008:

 

Il mare

 

Il mare è un luogo di confine

tra la terra e il cielo,

tra il finito e l’infinito.

 

È un luogo di silenzio

e di solitudine,

ma anche di vita e di movimento.

 

Il mare è un luogo di sogno

e di ispirazione,

un luogo dove tutto è possibile.

 

Si è in piena bonaccia: non una crespatura, se non minime onde appena percettibili. Eppure la forza evocativa della poesia si fa strada nel semplice linguaggio “fotografico” che la distingue: dai “luoghi” del confine, della terra, del finito, del silenzio, della solitudine, sortiscono i soffi vitali del sogno e dell’ispirazione, il “non luogo”, appunto, del “tutto è possibile”, dell’immaginazione, dove solo l’artista è sovrano, capace di elargire il dono, a chi legge o a chi osserva, del piacere inarrivabile di un sia pur piccolo godimento interiore. È un tratto dell’atteggiamento dell’artista marchigiano singolarmente affine a quello di Jon Fosse, Premio Nobel per la letteratura 2023, che, in un’intervista, scopriva così le sue “carte”: «Quando scrivo, ascolto. Ascolto il silenzio e cerco di farlo parlare».

E’ nell’ascoltare il silenzio e nel cercare di farlo parlare che risiede il potere della creatività. È la bellezza dell’arte, signori.

Cucchi, tuttavia, impiega il suo maggior tempo in pittura nei panni di quel che è, un operoso e prodigo transavanguardista; talché si acconcia a trasferire sulle tele la sintomatologia che s’è avvertita nella sua poesia: con una differenza, quanto mai necessaria, considerate la sostanza e la natura della pittura: quivi, non essendo il caso, per necessità d’ordine esecutivo, di rappresentare i “luoghi” dell’ispirazione, ci si limita alla suggestione dei “non luoghi” ove di certo non mancano i fantasmi sotto copertura  dell’emozione e del pathos. Sono i temi che si rincorrono e si richiamano in tutta la poetica della transavanguardia e che spesso toccano gli assunti universali quali la vita, la morte, l’amore, il tutto attraversato da sussulti di evidente spiritualità: la soggettività, ovvero l’individualità, così tanto rifiutata dall’arte concettuale, torna in auge a reclamare il suo primario e insopprimibile protagonismo.

L’artista, secondo la fondamentale osservazione del critico Bonito Oliva, e non più l’osservatore, torna ad occupare il primo posto nell’avventura dell’espressione estetica, con tutto il suo mondo interiore, con tutta la sua capacità di rapportarsi alla realtà e di interpretarla in tutti i sillogismi possibili dettatigli dalla sua ispirazione. Appare questa la tesi essenziale della transavanguardia, alla quale, tuttavia, non basta la riconsiderazione della tradizione, messa intelligentemente “a lato” dell’artista come ammonitrice e silenziosa dea ispiratrice; anzi, rivendica altresì una naturale continuità con l’avanguardia post-impressionista nostrana, quella dei De Chirico, Boccioni, Carrà, Morandi, per intendersi, e tanti altri.

È l’avanguardia alla quale il movimento “trans” si richiama riconoscendone i valori ultimi e residuali della tradizione accademica, non lontani comunque – dati i cambiamenti sociali, economici e politici del tempo –  dal bisogno universalmente avvertito  dell’innovazione; valori quali la figurazione ancora leggibile, la composizione armonica vista come requisito sine quo non, la cromia non necessariamente esaltata ma profusa in tinte chiaroscurali equilibrate (Carrà), il paesaggio presente nelle sue linee naturali seppur trattate con ingegnosità narrativa (Segantini), la natura morta sorpresa nella sua intima e racchiusa atmosfera di sapore familiare (Morandi).

L’avanguardia, dunque, come prodomica della transavanguardia; un’antenata, si potrebbe dire, con le medesime “fisse”: opposizione all’accademismo e apertura alle forme di una nuova espressione estetica, sempre, però, con l’attenzione dovuta all’unica figura di spicco: l’artista, e giammai performances discutibili,installazioni riproducenti ambienti di vita i più vari ma anche i più ovvi, strutture forzatamente distese in paesaggi naturali a raffigurare e a trasmettere improbabili messaggi, e, in vetta a tutto il sublime accanimento cosiddetto “concettuale”,  il famoso barattolo con la “merce meno nobile” d’artista.

Enzo Cucchi apre la sua scena, dunque, in questo significativo e preciso frangente “ideologico”: nasce come poeta e continua come artista visionario: nessun contrasto o superamento di atteggiamento perché resta, e fondamentale, il lirismo di una soggettività individuale, frenetica e mai appagata nella ricerca di un linguaggio figurativo, allusivo e a volte tenacemente celato, tuttavia sempre sorprendente e fortemente iconico.

È, però, il caso di vedere all’opera il nostro artista. Dato per scontato che la sua maggior attività è da vedersi nella pittura figurativa con olio su tele perlopiù superdimensionate, l’attenzione è dapprima curiosamente attratta da un olio, cm 100 x 100, tra le più “figurative”, ovvero CACCIA MEDITERRANEA (1979).

L’appartenenza transavanguardista è subito appalesata dall’evidente ritorno al figurativo con un chiaro intento di allontanamento dall’arte meramente astratta o concettuale.

Ma non tutto persuade in questo proposito poiché la scena non è per nulla agevolmente “leggibile”, tanto che scatta sul momento l’ipotesi della metafora, così che l’osservatore è chiamato subito in causa per la più acconcia e plausibile interpretazione.

Al che un interrogativo sorge spontaneo: ma non era proprio l’arte concettuale a obbligare il fruitore dell’opera a spremere le proprie meningi nella ricerca di un senso del lavoro in cui si era imbattuti?

Aleatorietà delle etichette!

A corrervi dietro si rischia di smarrirsi in teorie fallaci e ingannevoli, col rischio alle volte di non riuscire a vedere l’opera per quello che è: il prodotto di un gesto artistico sorto per grazia e a suggello di un impulso creativo.

Una scena di caccia, dunque. Sul lato destro una sagoma umana con in ispalla uno schioppo, che spara ad un inconsapevole animale (un cane?)  accovacciato mentre suona una tastiera.

Le due figure sono in linea con la diagonale del dipinto tra un‘infinità di pennellate larghe, colorate a tinte vivaci e fortemente contrastanti, tirate nella medesima direzione della diagonale. Si può notare che il cacciatore non elargisce neppure un volto, esibendo all’inverso un inverosimile copricapo.

Se si volesse, ciò nonostante, architettare una versione dell’opera, verrebbe d’impulso pensare ad un contrasto, se non a un’irriducibile e avversa opposizione, di cultura-natura, con tanto di violenza da parte della cultura umana (lo schioppo) a fronte di una natura (il cane) deputata a coltivare l’armonia (la tastiera) di equilibri ancestrali.

La forma quadrata del dipinto acuisce, infine, a mo’ di lente d’ingrandimento, la “drammaticità” e l’”insensatezza” del gesto del simulacro umano, che, a ben vedere e considerare, si ritrovano identiche in ben altri contesti.

Un’altra significativa opera di Cucchi è senza dubbio “ROMANZO AL SOLE” e si è (2010) di parecchio vicini al tempo presente.

Il dipinto, in prevalenza sciolto nelle calde sfumature del giallo e, nella parte superiore, nella tenuità di un celestino appena adombrato nell’arco di cerchio di un arcobaleno, spalanca, tra il magico e il visionario, uno scenario aperto ad un senso di gioia e libertà: un ottimismo appena, purtroppo, disturbato dal passaggio, nell’angolo in basso a sinistra, di una mandria di cavalli rossi di cui, in uno squarcio grigio, è possibile scorgere solo la testa.

Sul filo dell’orizzonte, presumibilmente a ridosso del mare, si scorgono due figurette, un adulto e un bambino, colà giunti dopo aver attraversato una strada, fluida e senza ostacoli di sorta, che taglia pressoché in verticale l’orizzontalità della spiaggia assolata.

La rappresentazione possiede una forte valenza bene augurale: è l’umanità (adulto-bambino) che guarda al futuro (arcobaleno) benignamente immaginato dall’artista, il quale se non ha voluto omettere verosimili difficoltà (i cavalli) nel suo avvenire, è stato prodigo nell’aver voluto rovesciare sul quadrante del tempo presente la massa della sabbia d’oro del suo cammino secolare.



 

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