Fuga dalla politica, tra disincanto e astensionismo. E’ il titolo del convegno che si è tenuto recentemente a Segni su iniziativa della Lista Rocca, la lista che porta il nome del presidente della Regione Lazio, anche lui tra i relatori. Più che un Convegno, una giornata di studio.
Un’analisi articolata attraverso contributi e testimonianze della politica, della cultura, del volontariato.
Un mix di esperienze a confronto: da quella di Alessandra Clemente, consigliere comunale di Napoli, a quelle di Alessandro Giuli, presidente del Maxxi, di Maurizio Tarquini, Ad di Unindustria, di Walter Tocci, ex vicesindaco di Roma durante la Giunta Rutelli, di Luciano Crea, consigliere regionale del Lazio, e di Fabrizio Molina, coordinatore della stessa lista civica.
Fuga dalla politica, dunque, e “civismo” nelle sue varie declinazioni. Parlarne, approfondirne gli aspetti, sondare le cause e individuare i rimedi del malessere che da lungo tempo ormai ha colpito la politica non è inutile. Al contrario, è urgente e necessario.
Sabino Cassese in un recente articolo sul Corriere della Sera traccia una mappa sconfortante del mondo democratico. Il numero degli abitanti della Terra retti da governi democratici diminuisce e, in questi, i cittadini che vanno a votare sono sempre meno. I processi di decisione dei governi democratici sono sempre più complicati, lenti, farraginosi.
I segni della crisi sono molti ed evidenti.
Come molte sono le interpretazioni che se ne traggono. Da un lato, i cittadini se la prendono con lo Stato che non riesce a mantenere gli impegni e finiscono per considerarlo debole.
Dall’altro, ci si preoccupa dei pericoli che si corrono con un eccessivo rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. Insomma, la democrazia è a rischio perché troppo debole o perché troppo forte?
Per rispondere a queste domande l’ex ministro della Funzione pubblica e giudice della Corte Costituzionale analizza ben cinque fattori latenti di crisi degli ultimi cinquant’anni. Fattori latenti che possono portare al collasso le democrazie. Vale la pena ripercorrere i tratti di questa impostazione del giurista, cercando di approfondirne ulteriori aspetti. Partiamo dal primo fattore. Nelle democrazie mature, quelle che hanno un secolo di vita, alle prese con una pluralità di interessi collettivi spesso contraddittori diventa sempre più difficile metterli in fila e stabilire un ordine di priorità fra gli stessi interessi.
Vale per l’occupazione e lo sviluppo, per la protezione sociale, la tutela dell’ambiente e altre mille questioni che riempiono l’agenda e richiedono una effettiva cultura di governo della complessità, spesso più declamata che concretamente realizzata.
In secondo luogo, nelle democrazie contemporanee sono spariti i partiti. Ossia, non esistono più le organizzazioni politiche, la cui natura associativa e la strutturazione interna ne faceva lo strumento principale della democrazia. Intendiamoci, il nome “partito” sopravvive in alcuni casi.
Ma è una finzione, un inganno, nel peggiore dei casi. Una illusione ottica, nel migliore.
La verità è che con la personalizzazione della politica e la prepotente affermazione del leaderismo, i partiti si sono trasformati in oligarchie. Il potere effettivo è concentrato nelle mani di pochi.
E’ quella che Robert Michels, studiando il comportamento politico delle élite, definì la “legge ferrea dell’oligarchia”, secondo cui in un partito politico il potere si concentra inevitabilmente nelle mani di un gruppo ristretto.
Il termine assume, ovviamente, una connotazione negativa se quel gruppo esercita il potere a esclusivo vantaggio di una minoranza, per tornaconto personale e fuori da ogni controllo democratico. Nello snaturamento dei partiti trova spiegazione la perdita di peso dei parlamenti.
Il resto ce lo mette, almeno in Italia, una legge elettorale abborracciata e pessima, che non lascia spazio all’elettore nella scelta dei propri rappresentanti, affidando unicamente ai capi partito l’individuazione dei candidati, con il risultato di fidelizzarli comprimendo la loro autonomia.
Il terzo fattore non è meno influente. Esso investe la sfera metapolitica. Riguarda la mancanza delle grandi idealità. Quel fervore di idee che aveva animato il mondo per due secoli, provocando corposi scossoni nelle coscienze, fino a mettere in moto le masse, aggregare elettori, sognare palingenesi. Finite le ideologie, sono venute meno anche le idee. Il pensiero politico è diventato asfittico. Si è svilito ed è precipitato nel vortice di un’afasia totale. Al suo capezzale non è arrivato in soccorso né una intellettualità folgorante né una cultura originale. Una crisi nella crisi. Con conseguenze disastrose in termini di offerta politica, sempre più debole e frammentata. Di conseguenza, il quarto fattore latente della crisi della democrazia si specchia nella incapacità di orientamento della politica e dei governanti. Si insegue il consenso purchessia, cogliendo le pulsioni e i sentimenti dei cittadini. Si subisce l’opinione pubblica, non la si orienta. Nell’epoca dei social il danno che ne deriva è ancor più pesante. L’instabilità dell’elettorato, la sua crescente apatia sono in gran parte dovute a queste cause.
Come lo è – ecco il quinto fattore esplorato da Cassese – la sottovalutazione di quello che una volta si chiamava l’ordine della ragione.
Ossia quel rapporto cognitivo che l’elettorato manteneva con i propri rappresentanti, rendendolo partecipe delle attività di governo e, più ampiamente, delle iniziative politiche che di volta in volta venivano assunte. I partiti politici, su questo piano, svolgevano un ruolo rilevante. Ne beneficiava, nel complesso, la gestione pubblica, sia a livello locale che nazionale.
Se questa è la diagnosi della crisi della democrazia, e certamente lo è, qual è allora la cura? Sempre che una cura sia possibile. Cassese invoca un alto livello di poliarchia, una grande capacità amministrativa, un rigoroso rispetto della legalità e uno sviluppo dell’istruzione della società civile.
Difficile non condividere il suo pensiero. Ma è sufficiente tutto questo per rianimare la politica, per arginare la fuga dell’elettorato, per recuperare ormai più della metà degli italiani ad una partecipazione attiva?
All’impegno civile che Giorgio Gaber, in un fortunato ritornello, legava indissolubilmente alla libertà: “libertà è partecipazione”.
E’ lecito nutrire qualche dubbio.
Non sui “fattori latenti”, e neppure sui rimedi proposti. Semmai su un sesto fattore che tutti gli altri sembra avvolgere, racchiudere e che riguarda il tramonto di ogni passione, di quel fuoco che arde nelle vene, che è la vera anima della politica. Quell’amore che è dedizione e sacrificio, voglia di mettersi in gioco, di prodigarsi per il bene altrui. Quel sentimento di appartenenza ad una Comunità.
Di fierezza per la difesa della propria terra e delle proprie tradizioni. Di genuino trasporto verso il popolo, lo Stato, il Comune. Un fattore, la passione, che non è merce da acquistare al mercato, ma sentimento intenso. “Senza passione non c’è conoscenza, non c’è esperienza e nemmeno storia”, è stato scritto. Se sfiorisce la passione vien giù tutto l’armamentario che regge la politica, quella alta e nobile, intarsiata di tessuto pregiato. Nel vuoto della passione si aprono spazi agli egoismi e agli individualismi. La politica si fa merce, convenienza, clientela. Di più: cessa di esistere.
Cessando di esistere, dominano gli interessi e prevale la tecnoburocrazia. In un saggio da poco nelle librerie, intitolato “I segreti del Potere”, un alto funzionario pubblico, Luigi Tivelli che è stato consigliere parlamentare della camera dei Deputati e della Presidenza del Consiglio, indica perfettamente dove s’annida il deep State al quale si deve il funzionamento delle istituzioni e , quindi, il vero esercizio del potere: capi di gabinetto, direttori generali, vertici degli enti pubblici, dei servizi segreti e di sicurezza, responsabili delle aziende a partecipazione statale. “Stanno sulla tolda di comando, però si comportano come se fossero ufficiali addetti alle macchine, indispensabili per la navigazione dell’Italia…Sotto la spinta degli interessi degli stessi burocrati, l’apparato può mettere in discussione o in crisi chi guida momentaneamente il governo ed è da molti punti di vista un dilettante rispetto al burocrate”. Niente di nuovo sotto il sole. Almeno da quando, e ormai sono decenni, la politica ha abdicato al suo ruolo, soppiantata da “la repubblica delle toghe” e involuta nella sua rincorsa ad un elettorato sempre più esiguo e circoscritto. Da dove ripartire, allora? Probabilmente da una nuova forma di civismo. Un civismo che vada oltre i partiti. Oppure, per essere più precisi (è stato l’argomento centrale dell’incontro di Segni), un civismo che punti ad intercettare la domanda di rappresentanza in spazi che sono al di fuori dei partiti, da quest’ultimi, allo stato, difficilmente raggiungibili. Un civismo dimensionato e ridefinito, proiettato nella selezione avveduta di classe dirigente competente e professionale.
Funzione che potrebbe stimolare anche i partiti a imboccare decisamente la strada delle riforme, muovendo dalla stessa forma partito oltre che dal loro riconoscimento giuridico, costituzionalmente previsto, ma mai adottato.
Questione analoga investe i sindacati, la cui crisi di rappresentanza non è meno rilevante rispetto a quella di cui soffre il partitismo.
D’altro canto, per coltivare ragionevoli speranze di rinascita della partecipazione politica, il civismo e i partiti dovrebbero, a nostro avviso, tornare a coniugare i processi di sviluppo e pianificazione locale con i bisogni e le attese dei cittadini.
E’ dal territorio che può rimettersi in moto la politica e levarsi un modello vincente. Un modello che incarni tanto i profili identitari dei luoghi su cui si innesta l’azione di sviluppo quanto l’istanza di partecipazione dei vari soggetti interessati ad essere protagonisti del cambiamento.
E’ qui, a questo livello, che può entrare in gioco un nuovo spirito comunitario. E’ qui che i poteri dello Stato possono essere rinegoziati, dal momento che esso esercita le sue funzioni entro confini ben distinti, senza, di contro, che siano ignorati i confini territoriali, né quelli tra pubblico e privato.
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