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Il presidenzialismo è il solo modo per dare al popolo la sovranità perduta

Alla vigilia dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica molto si parla di nomi e compromessi, poco o niente sulle modalità che dovrebbero rendere effettivo il potere del capo dello Stato come espressione della volontà dei cittadini per rappresentare adeguatamente ed effettivamente l’unità della nazione.

La più grande riforma che muterebbe, con l’introduzione dell’elezione diretta, il volto della politica italiana, latita nella discussione pubblica ed i partiti sono ben distanti dal prendere in considerazione l’ipotesi di un rinnovamento radicale necessitato dalla volontà popolare e dall’esigenza di ritrovare uno spirito di coesione in una figura estranea ai mercanteggiamenti parlamentari.

La letteratura politica di questi ultimi decenni ed i ricorrenti sondaggi di opinione più recenti, del resto, testimoniano che nel Paese c’è la diffusa consapevolezza della necessità di sostanziali cambiamenti nell’ordine costituzionale. Ad essa, purtroppo, si contrappone la resistenza del partitismo a sottrarre la sovranità al popolo: da qui le forme impropriamente dette di “antipolitica”.

Tuttavia, la strada delle riforme resta l’unica opzione possibile per rimettere in piedi il Paese.

Riforme che non possono prescindere dal sottrarre alle forze politiche tutto il potere indebitamente accumulato a cominciare dal riconoscimento giuridico degli stessi, dunque, e dalla delimitazione del loro ruolo.

Ricomporre il quadro del rapporto tra popolo ed istituzioni significa tornare a proporre la più lineare, efficace e compiuta rappresentazione del potere che trae dal basso la sua legittimazione, dunque la più alta espressione della democrazia diretta, vale a dire l’elezione popolare del capo dell’esecutivo: un grande tema che ha intrigato trasversalmente innumerevoli politici ed intellettuali dall’immediato dopoguerra ad oggi.

Scriveva Gianfranco Miglio: “Se, in un regime elettivo-rappresentativo, si vuole (e non si può non volerlo) un supremo potere decisionale (cioè un Governo) sottratto alle pressioni ed ai ricatti degli interessi frazionali organizzati, la via obbligata è costituita dall’elezione diretta del suo titolare da parte del popolo. Da un vero ‘leader’ nazionale, designato da milioni di elettori, nessuno si sogna di pretendere poi, in cambio del voto, favori personali o di categoria; né il candidato ad un a competizione di tale dimensione è costretto a presentare ‘piattaforme’ elettorali molto particolareggiate: il rapporto di ‘rappresentanza’ è tanto più fiduciario quanto maggiore è il numero degli elettori, e più ampio, dunque, il collegio elettorale”.

Dunque, “i Governi più forti sono indubbiamente quelli dei regimi ‘presidenziali’, ove le funzioni di capo dello Stato e di responsabile dell’Esecutivo coincidono. Esempi massimi del genere sono offerti dalla Costituzione statunitense e (in parte) da quella francese della Quinta Repubblica”.

Ci si entusiasmati, forse con un eccesso di superficialità, qualche lustro fa, per il decisionismo che connota la Quinta Repubblica francese: non è un “miracolo”, ma un sintomo da non sottovalutare .

Il presidente in Francia può fare fin dal momento dell’elezione ciò che ritiene opportuno, nei limiti della Costituzione perché questa gli consente la massima agibilità e nessun condizionamento da parte dell’Assemblea legislativa che, invece, esercita un controllo efficace sugli atti dell’esecutivo, come del resto accade al presidente degli Stati Uniti che tuttavia può agire per come le istituzioni gli consentono e rappresenta effettivamente l’unità della nazione in nome della quale agisce cercando il consenso del Congresso, ma in alcune materie anche al di là delle pretese di condizionarlo da parte del potere legislativo. Ciò non vuol dire che il sistema francese, ed in misura diversa quello americano, costituisca una sorta di deriva plebiscitaria della democrazia diretta.

Al contrario, esso si propone come modello di rappresentatività e di buona legislazione in coerenza con l’indirizzo dell’Eliseo.

Sempre Miglio spigava che la differenza tra il parlamentarismo costituzionale della Quinta Repubblica francese ed il nostro parlamentarismo “integrale”, è data dal fatto che nel primo “la stabilità del Governo non è scopo a se stessa, ma è finalizzata esclusivamente a garantire la produzione normativa. La quale non deve in alcun modo essere ostacolata.

E la Costituzione francese raggiunge questo obiettivo garantendo la coerenza e l’omogeneità dei progetti presentati dal Governo e tradotti in leggi (cioè attraverso mezzi coerenti con i fini, come specialmente si vede nella procedura delle legge finanziaria per l’approvazione dei bilanci)”. Il Parlamento, dunque, ha il compito di occuparsi della grande legislazione, ma non ha l’esclusiva della funzione normativa una parte della quale spetta al governo.

In Italia, dove vige un parlamentarismo assoluto, e dunque un assoluto dominio dei partiti, l’obiettivo del legislatore non è garantire la funzione normativa, ma il diritto di ogni parlamentare di far valere contro le iniziative del governo, di qualsiasi segno sia, gli interessi, più presunti che reali, dei suoi elettori o delle lobby che rappresenta e lo sostengono in campagna elettorale.

La questione s’inscrive nella grande disputa sulla sovranità e, dunque, sui limiti dei poteri costituzionali. Se si proiettano le deficienze rilevate nel contesto policentrico che caratterizza l’assetto istituzionale del nostro Paese, si ha un quadro esatto della paralisi politica cui si deve il disagio crescente nella popolazione.

Ed allora sarà bene, nell’affrontare la tematica presidenzialista, spendere qualche parola al riguardo. La sovranità politica attuale non è più quella che era fino a qualche tempo fa. Essa è divisa fra enti sovranazionali, enti territoriali, autorità indipendenti: tutti elementi che non potevano essere contemplati nella Carta costituzionale la quale si fonda, invece, sulla sovranità concepita sul modello dello Stato-nazione il quale, com’è noto, discende da un’antica concezione dello Stato che ha avuto in Jean Bodin il più grande teorico e che fu codificata in Europa con la pace di Westfalia nel 1648.

Oggi si può dire, proprio perché sono radicalmente mutate le forme della sovranità, che assistiamo all’emergere di una sovranità che trae legittimità dal basso, dai cittadini, dai movimenti, dagli enti territoriali e sopranazionali, a cui vengono delegati o devoluti buona parte di molti poteri che in precedenza appartenevano in esclusiva allo Stato nazionale.

Siamo forse entrati in quella dimensione dello Stato prevista da Giovanni Althusius fondata, in una certa misura, sul principio di sussidiarietà che connota la legittimazione di un nuovo tipo di sovranità; sussidiarietà che impone che le decisioni vengano prese, al più basso livello possibile, da parte di chi sopporta le conseguenze delle decisioni stesse. Attraverso la sussidiarietà si attiva la democrazia integrale; un principio non soltanto economico, dunque, che ha attraversato tutto il secolo scorso. Essa, infatti, non è una scoperta recente, tanto che sue tracce ritroviamo in documenti papali e perfino nella Carta del Lavoro del 1927.

I diversi livelli di sovranità vanno ricondotti ad unità se si vuole evitare il pericolo di una disgregazione possibile del tessuto nazionale.

La sola possibile unità è una istituzione che tragga la propria legittimità dai cittadini: l’elezione diretta del presidente della Repubblica o del capo dell’esecutivo, come istanza di coesione della molteplicità delle componenti della società civile. Diversamente, continueremo ad assistere al diffondersi del policentrismo fino ai limiti estremi dell’incontrollabilità e, dunque, alla disgregazione dell’unità statale priva di rappresentanza unitaria.

Il presidenzialismo è un grande tema politico-istituzionale che da sempre è stato uno dei cavalli di battaglia della Destra italiana che colpevolmente negli anni in cui ha governato se n'è dimenticata, come tutto il centrodestra. Anche all'Assemblea costituente ci fu chi propose, senza successo, all'attenzione la "soluzione presidenzialista": i rappresentanti del Partito d'Azione e tra essi, in particolare, Piero Calamandrei e Leo Valiani s'impegnarono a fondo in una delle Sottocommissioni dell'Assemblea per far valere le ragioni del presidenzialismo.

Negli anni Sessanta fu il repubblicano Randolfo Pacciardi ad imbracciare la bandiera del presidenzialismo al punto di essere accusato di sovversivismo e di tentazioni “golpiste”.

Agli inizi degli anni Settanta furono alcuni "giovani leoni", come si definirono allora, della Democrazia cristiana, aderenti al gruppo "Europa '70", che posero all'attenzione le tematiche presidenzialiste.

Poi venne la stagione socialista: politici come Bettino Craxi ed intellettuali come Luciano Cafagna rilanciarono, tra la seconda metà dei Settanta e gli inizi degli Ottanta, la necessità di operare un radicale mutamento nella forma di governo del nostro Paese.

Non si può dimenticare, naturalmente, che il Movimento sociale italiano fece del presidenzialismo, fin dalla sua nascita nel dicembre 1946, uno dei temi centrali e più incisivi della sua propaganda istituzionale, da Costamagna ad Almirante. Ricordo anche una fiorente pubblicistica che poco più di trent’anni fa rianimò il dibattito sul presidenzialismo grazie, soprattutto, all'attivismo del cosiddetto "Gruppo di Milano" ispirato da Miglio.

Il presidenzialismo non bisogna considerarlo come una sorta di contropotere, ma come un elemento di equilibrio e di riconoscibilità del processo di formazione della decisione che è uno dei fattori necessari alla modernizzazione del Paese.

Da essa, dal momento decisionale "forte", non si può prescindere se si intende procedere alla modernizzazione sociale e delle strutture civili del Paese, se non si dotano, cioè, i centri decisionali di poteri efficaci che, al momento, non dimentichiamo che vengono esercitati da soggetti diversa dalla classe politica, e dunque privi di legittimazione democratica, come supplenti insomma, che agiscono sulla spinta di interessi personali o di gruppo.

Il presidenzialismo, dunque, è un elemento di partecipazione, ma è anche di chiarificazione all'interno dei rapporti tra i poteri dello Stato. Con la sua adozione si stabilisce una netta linea di demarcazione tra i controllori ed i controllati, tra potere legislativo e potere esecutivo.

Il Parlamento può effettivamente esercitare un controllo sul governo avendo questi la sua fonte di legittimazione fuori dalle aule parlamentari.

Il presidenzialismo non è una sfida, ma una proposta per immaginare una Repubblica nuova, dei cittadini e non dei partiti.

Jean Jaurés, socialista e democratico, sosteneva che la Repubblica non va soltanto difesa: va organizzata. Oggi, si fa strada la consapevolezza che la migliore difesa della Repubblica e dei valori repubblicani stia nell’organizzazione delle sue strutture politico-istituzionali.

Se la scelta presidenzialista resta sullo sfondo delle possibilità, declinata nel modo che si reputa più opportuno, è una possibilità che non dovremmo lasciarci sfuggire.

Sia pur tenendo presente che il contesto non è favorevole all’apertura di una stagione di riforme, ma che soltanto da un’Assemblea costituente, sottratta alla dialettica parlamentare ed allo scontro tra i poteri dello Stato, potrà nascere una Nuova Repubblica.


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