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Primarie in Usa, al via la corsa alle elezioni

Oltreoceano già si guarda all’autunno. Le elezioni del prossimo 5 novembre sono all’orizzonte e infatti in queste settimane il popolo americano è impegnato nel consueto appuntamento elettorale che permetterà ad ogni stato federale di decidere quale candidato per ogni partito si scontrerà al faccia a faccia delle prossime elezioni presidenziali.

Sarà un lungo processo a più step che coinvolgerà tutti i 50 gli Stati federali e si concluderà in estate con la nomina dei candidati ufficiali che andranno a fronteggiarsi per il titolo di 47esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Cambiano però le modalità tra Stato e Stato: la maggior parte – circa 40 su 50 – organizza delle tradizionali elezioni in cui si vota con un metodo molto simile a quello italiano, ossia attraverso il voto a scrutinio segreto in presenza o alternativamente per posta.

I rimanenti dieci Stati invece, organizzano dei “caucus” che, a differenza delle elezioni primarie tradizionali, si svolgono con modalità che variano da stato a stato (e da partito a partito) e cambiano anche di anno in anno. Generalmente consistono in piccoli comizi o dibattiti che precedono il voto vero e proprio, organizzati all’interno di palestre, bar, scuole o luoghi di ritrovo di questo genere.

Tradizionalmente, Iowa, Idaho e Wyoming organizzano caucus sia per il partito repubblicano che per quello democratico, mentre stati come Nevada, Missouri, Alaska, North Dakota, Utah e Hawaii scelgono di procedere solo per quanto concerne il partito repubblicano.


Nikki Haley, Donald Trump e Ron DeSantis

Ecco che allora lo scorso 15 gennaio è partito l’Iowa con i caucus del Grand Old Party (il partito repubblicano) che vede(va) concorrere al fianco di Donald Trump il suo rivale politicamente più vicino, Ron DeSantis – ex governatore della Florida che lo scorso 21 gennaio ha poi ufficialmente ritirato la candidatura - e la più moderata Nikki Haley, ex governatrice della Carolina del Sud ed ex-ambasciatrice alle Nazioni Unite.

Questa volta è proprio sul partito repubblicano che si puntano i riflettori, visto che dal lato dei democratici è oramai data quasi per scontata la candidatura ufficiale di Joe Biden per le presidenziali di novembre.

L’attuale presidente sembra essere ad oggi il candidato più convincente per rappresentare ancora una volta il suo partito, visto anche il successo ottenuto ad inizio febbraio in South Carolina, dove ha conquistato circa il 97% dei consensi, in uno stato scelto appositamente per aprire le primarie testando l’elettorato nero che costituisce circa il 26% dei residenti dello stato.

All’Hotel Fort di Des Moines (Iowa), invece, assistiamo ad un’inarrestabile (nuova) ascesa di Trump, che riesce a distaccarsi di ben 30 punti percentuali dai suoi sfidanti e vincere in quasi tutte le contee, anche quelle storicamente a lui meno favorevoli, dove si concentrano giovani, studenti universitari e la porzione più abbiente della popolazione.

Il fatto è rilevante. L’Iowa infatti è stato per anni uno Stato con un generalizzato consenso democratico, abitato da una popolazione prevalentemente bianca, impegnata perlopiù in settori come industria, agricoltura e bestiame. Ma qualcosa è cambiato dal 2010, ed abbiamo (neanche troppo) lentamente assistito ad un migrare del suo elettorato sempre più verso destra, con una sensibilizzazione crescente soprattutto nei confronti dei candidati più populisti. Non è stata infatti casuale stavolta la scelta di concentrare i comizi elettorali dei candidati su temi nazionali piuttosto che locali.

I temi che hanno riscontrato più successo nel sentimento di uno stato tendenzialmente conservatore come l’Iowa sono stati soprattutto inflazione ed immigrazione: hanno fatto molto discutere infatti i toni accesi con i quali si è parlato di “invasione di illegali” o addirittura di migranti che “avvelenano il sangue dell’America”.

Il risultato ottenuto da Trump è un segno netto e manifesta proprio questo mutamento consensuale interno al Paese ed è la cartina tornasole di una crescente radicalizzazione e polarizzazione della politica statunitense.

Trump è riuscito in un certo senso a mantenere una fetta di elettori che, ingraziati dai risultati ottenuti in materia economica nei quattro anni del suo mandato, hanno formato una coalizione compatta di forze e gruppi diversi - tra cui anche i gruppi religiosi evangelici presenti all’interno dello stato – che stanno consegnando nelle mani dell’ex presidente una vittoria senza intoppi, nonostante i guai giudiziari a suo carico. Stessa sorte in New Hampshire, il 23 gennaio scorso, dove Trump si impone sulla rivale Haley piazzandosi in cima col 54% contro il 43 della sua rivale, un risultato notevole anche se meno marcato rispetto a quello ottenuto in Iowa. Con il ritiro di DeSantis, la fetta di elettori che lo sosteneva ha deciso in sostanza di fornire il sostegno mancante dell’ex presidente, soprattutto se parliamo delle zone rurali del paese, storicamente a lui più favorevoli.

C’è chi si sarebbe aspettato infatti anche dalla Haley un ritiro, per unirsi a DeSantis a sostegno di Trump, così come gli altri che hanno fatto blocco comune a sostegno del probabile vincitore, ma l’ex governatrice vuole invece aspettare almeno le primarie in South Carolina, Stato dove è nata e dove ha governato per ben sei anni.

L’unico problema è che i tempi sono cambiati, e l’attuale governatore, Henry McMaster, appoggia Trump.

Infatti, dopo la terza stracciante vittoria in Nevada, Trump sembra a conti fatti essere il candidato repubblicano che realisticamente affronterà il faccia a faccia di novembre.

Ma cosa succederebbe nel caso di una sua rielezione? È davvero possibile? Certamente sarebbe un risultato non impossibile e quasi unico nella storia, visto che finora soltanto Grover Cleveland era riuscito a farsi eleggere in due elezioni non consecutive.

C’è da considerare anche che molti sono piuttosto preoccupati di una rielezione di Biden per via della sua età avanzata e della possibilità che non possa avere più l’energia per ricoprire un ruolo di questa portata, nonostante a conti fatti il suo rivale sia più giovane di lui di soli quattro anni.

Una rielezione trumpiana potrebbe tecnicamente giovare ai portafogli degli investitori che guardano agli Usa, visti gli effetti positivi e i solidi ricavi ottenuti durante il suo primo mandato.

Certo, preoccuperebbe ancora l’inflazione e non poco la politica estera, in particolar modo le potenziali tensioni geopolitiche che verrebbero inasprite dalla sua posizione nei confronti di Cina e Taiwan.

Soprattutto se consideriamo che, rispetto a quattro anni fa, adesso gli Stati Uniti sono già impegnati a vigilare su un doppio fronte, russo-ucraino e quello israelo-palestinese.

Ma c’è anche la questione dell’ineleggibilità alle elezioni, sollevata dallo stato del Colorado.

A conti fatti infatti, Trump è stato dichiarato ineleggibile dalla Corte Costituzionale per aver infranto il quattordicesimo emendamento della Costituzione, a seguito dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Il problema è che però difficilmente l’ex presidente potrà essere realmente escluso dalle elezioni di novembre, visto che la Costituzione non attribuisce ad un singolo stato il potere di intervenire a livello federale su un candidato, ed al tempo stesso alcuni giudici della Corte Suprema hanno espresso i propri dubbi al riguardo, avanzando l’ipotesi che un fatto del genere possa costituire in futuro un precedente tale da permettere ai singoli stati di appropriarsi di “poteri straordinari”.

Molto probabilmente dovremmo aspettare il pronunciamento ufficiale della Corte Suprema che potrebbe arrivare entro il Super Tuesday, il 5 marzo, quando voteranno contemporaneamente 15 Stati Federali, compreso il Colorado che ha avanzato la proposta di squalifica.

Quella di novembre si appresta quindi ad essere probabilmente una delle elezioni presidenziali più tese della storia americana sotto molteplici fattori, ricordando un po’ lo scontro Bush contro Gore nelle presidenziali del 2000, quando la Corte permise la vittoria di Bush annullando il riconteggio dei voti in Florida. Per il momento non resta che attendere la parola degli elettori.



 

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