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L'arte ribelle di Artemisia


Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni

La questione è tra le più complicate, come perlopiù sempre complicate sono le vicende che riguardano la donna e, soprattutto, la sua lotta contro i soprusi del sesso più forte.

Artemisia Gentileschi (1593-1653) appartiene allo stuolo di donne che hanno detto “no”: combattente su un fronte chiaramente minoritario nella Roma del ‘600, succube di uno stupro, costretta in tribunale a subire il supplizio della “sibilla”, grazioso strumento di tortura, con annessa vite di legno, messo in atto dal giudice per appurare la veridicità della sua accusa (schiacciamento dei pollici con delle corde opportunamente serrate intorno alla sua mano; e, ancora, ispezione pubblica della deflorazione verginale subita), affronta scherni, lazzi, gesti d’oscenità laidamente allusivi alla sua vicenda, ma non si arrende. Conferma la sua accusa contro il suo maestro di disegno, tra l’altro riscuotendo solo una lieve condanna per il medesimo.

Una storia d’altri tempi, si direbbe. Ma è la storia emblematica, questa sì dai tempi dei tempi, occorsa ad una parte consistente del genere femminile, ancora oggi in lotta per il riconoscimento dei propri diritti in tante plaghe del mondo.

Ma Artemisia racconta un’altra storia, che, quasi all’unanimità, critici e non, mettono a pari con la sua vicenda personale, puntellandola anche sui sospetti rapporti col padre.

L’altra storia ha per nome “pittura”: ed è l’arte ove lei primeggia giovanissima. Sotto la guida del padre (pittore egli stesso, emulo di Caravaggio, e chi non lo era in quei tempi?), non potendo ovviamente frequentare scuole d’arte o accademie di sorta, già appena sedicenne, o giù di lì, dà mostra d’essere un’artista provetta. Prova ne è l’olio su tela “Susanna tra i vecchioni” (1610).

Nel quadro “parla” la stessa configurazione geometrica “a ombrello”.

La Susanna, piantata col busto in verticale al secondo quarto della composizione, subisce l’obbrobriosa ingiuria da parte dei due vecchioni che la sovrastano come una cupola minacciosa.

La nudità della moglie di Joachim, appena velata da un panno che le copre solo una gamba, contrasta con il viluppo sfarzoso degli indumenti dei due guardoni: come a dire l’innocenza nuda e pura nulla può contro l’intrigante e ben ammantata perfidia, che vuol mettere a segno un suo proprio ricattatorio e fosco disegno.

Il quadro “parla”, altresì, per almeno altri due vistosi elementi: uno gestuale (quello delle mani dei due tipi che, in forma di quadrilatero perimetrano la minaccia dello scandalo, e delle mani di Susanna, che, aperte a scudo, vorrebbero opporvisi) e uno sonoro (quello delle voci che, secondo un’onda a zig-zag, partono dalla bocca dell’uomo dalla chioma nera, fanno ponte con l’orecchio del vecchione dal mantello rosso e vengono ricevute dalla poverella, che vorrebbe sottrarsi allo scandalo paventato.

Il progetto del quadro è, infine, geniale per via della sua essenziale composizione. Intanto la scena è posta a distanza ravvicinata dall’osservatore, che, in questo modo, viene coinvolto ed è quasi presente, suo malgrado, al misfatto (lasciato libero, però, a parteggiare per gli uni o per l’altra). Il paesaggio naturale non esiste e non è neppure supposto dal sopravanzante e più che eloquente paesaggio umano. In altre parole, non vi figura l’ombroso parco vegetale del dipinto di analogo soggetto del Domenichino; né, tanto meno, l’allegro zampillo delle fontane che ornano la piscina della dimora di Susanna; non vi compaiono le bramose mani dei vecchioni già addosso alla disgraziata come nella rappresentazione del Procaccini, né le mani dell’omone nel dipinto di Ludovico Carracci, che, non paghe, ardiscono ancor di più e pare che vadano a scovare nelle amenità della sciagurata. Sono opere, queste, intese perlopiù a compiacere e soddisfare le ragioni della pruderie della committenza e non proprio quelle dell’arte.

Artemisia, al contrario, si ferma al fatto in sé, non vuole inserire l’episodio nella teatralità così tipica e ricercata dalla pittura del suo tempo. Niente fronzoli inutili: la meschinità laida della vecchiaia, tante volte celebrata nei libri della virtuosa saggezza, viene posta a manifesto della più brutale berlina: l’uomo, non “tutto” l’uomo, ma malnate schiatte di innominati che non riescono a scorgere nella donna se non l’oggetto o il bersaglio sempre possibile dei loro loschi e mal riposti intendimenti.

L’insegnamento e l’influenza di Caravaggio, nell’ancora adolescente Artemisia, non sono ancora pienamente avvertiti, se non, forse - come si è cercato di dire - nella pur scarna composizione e nella forte gestualità “parlante” delle figure: il maestro Merisi esploderà più tardi, per esempio nella Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613).

Artemisia ha compiuto vent’anni, il fiore della sua età concorre a renderla artista più raffinata e consapevole. Forte dell’esperienza maturata nella casa paterna e della possibile conoscenza diretta di Caravaggio e, soprattutto, delle sue opere più recenti (quelle, per esempio, ammirabili in S. Maria del Popolo), costruisce, con quest’opera, la sua cifra pittorica ad un livello già praticamente eccelso.

L’episodio, anch’esso veterotestamentario, a cui si richiama il dipinto è arcinoto e non vale la pena rinnovellarlo; e l’opera di Artemisia, più che rappresentare in forma simbolica la sua rivalsa contro l’autore della violenza subita, rivela la tenacia di quanto possa il potere femminile, al pari di quello maschile, contro ogni forma di sopruso e, addirittura, di tirannide.

La scena appare a dir poco agghiacciante. La lotta e il tentativo di svincolamento del generale (che non appaiono nell’opera di Caravaggio) rendono ancor più drammatico il momento culminante dell’eroica impresa.

Quivi l’ancella Abra concorre con la forza fisica delle sue braccia non proprio gentili a trattenere il tiranno nel suo letto intanto che la sua padrona completa l’opera, che, a dire il vero, ricorda più il retrobottega di una macelleria che non l’interno di una tenda da campo.

Lo sguardo di Giuditta è la sintesi di un destino e di una determinazione: sopraffare il nemico della patria.

La composizione, a geometria radiale con al centro il capo straziato di Oloferne e i raggi delle braccia dei tre personaggi, contribuisce a incupire l’atmosfera illuminata non già da un lume di candela ma da un tagliente lampo radente.

I colori, altro pregio dell’opera, non sono secondi a quelli di Caravaggio, ma accentuano nel contrasto la lotta disperata in atto e non minimizzano la determinazione omicida dello sguardo di Giuditta.

“La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni” ha profetizzato uno scrittore filosofo a noi contemporaneo (Pasolini), così la verità dell’opera artistica di Artemisia Gentileschi non sta nella sola interpretazione psicoanalitica bensì anche nelle multiformi, varie e ulteriori interpretazioni che è possibile evidenziare sulle restanti cinquanta e passa opere della pittrice.

Una tra queste, in particolare, è necessario richiamare a chiusura di questa riflessione sul conto di Artemisia, figura indiscutibile dei prodromi delle rivendicazioni femministe, ma anche, e soprattutto, pittrice di alto valore pur nell’ombra del caravaggismo all’epoca imperversante.

L’opera, Autoritratto in veste di pittura (1638), appare veramente come il frutto della maturazione artistica più completa di Artemisia.

Abbandonati gli intenti della più varia apologia (mitologica, religiosa, ritrattistica), Artemisia, lontana dall’Italia, a Londra presso la corte di Carlo I, affronta un genere che non le era estraneo (Allegoria dell’inclinazione, 1615) ma neppure abituale: il genere simbolico.

In questo caso, l’artista si misura con un tema puramente fantastico, un progetto ideale, che l’impegna nel profondo della sua capacità creativa: ideazione del soggetto, infatti, sua postura e caratterizzazione le appartengono in tutto e per tutto quanto più originale è il soggetto affrontato.

Nell’Autoritratto in veste di pittura, realizzato lontana da Roma, Artemisia appare distante anche dai suoi temi abituali. È totalmente presa dalla pura ideazione pittorica e intende, forse nel suo intimo, rendere l’omaggio più caldo e struggente alla pittura, a quell’arte, cioè, coltivata sin da piccola e costruita con la sola forza della sua attitudine e della sua passione.

Ella vi si rappresenta di lato, ponendo l’osservatore in alto, praticamente all’altezza della sua mano che opera il miracolo della pittura: le sue braccia, quella volta in alto col pennello e quella tenuta in basso con la tavolozza impugnata, disegnano un arco perfetto che tende con forza lo sguardo dell’artista, a mo’ di dardo invisibile, verso l’idea da trasfondere sulla tela.

L’artista vive il suo momento estatico ed è abbigliata a festa con un sontuoso abito vezzosamente orlato. Non le manca, in un momento così operosamente impegnativo, l’ornamento d’una collana. Solo la capigliatura, evidentemente scompigliata, tradisce l’affanno del parto artistico.

Non vi compaiono elementi a richiamo del mondo naturalistico o di quello umano: l’artista è sola con sé stessa ed è lo stesso momento creativo che allontana, annullandole, le apparenze solite delle immagini abituali.

Il quadro, impostato sul gioco dei richiami di ombra-luce, lo si direbbe subito ideazione concepita come riflesso delle opere del Merisi.

Ma qui, con tutto il rispetto, il maestro è sicuramente estraneo: la pittura simbolica, del resto, non pare essergli stata familiare.

Così quel guazzabuglio che solitamente viene presentato come il ritratto di Artemisia Gentileschi (fatto di sospetti poco edificanti sulla sua vita, di passioni violente, di oscene apparizioni in tribunali, ma anche di lasciti paterni sulle sue opere per non parlare dei debiti caravaggeschi) sfuma e, anzi, si mette a fuoco, finalmente, proprio su questo ultimo autoritratto: l’immagine di una donna vera, determinata, combattente, pittrice rapita dalla sua arte, a cui non ha mancato di lasciare la bellezza del suo più alto ingegno e la forza della sua più strenua determinazione. Un’icona, questa certamente sì, delle donne d’ogni tempo impegnate a far saldare il conto della propria individualità, della propria dignità e del proprio lavoro.



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