Per quanto tentati, non ci iscriviamo al partito dei delusi dalla composizione del nuovo governo
Un po’ perché la delusione è sempre figlia dell’illusione e un po’ perché non è certo sull’accorto dosaggio tra tecnici e politici che può fondarsi il giudizio su un esecutivo emergenziale seguito ad un drammatico appello del Capo dello Stato. Ma soprattutto perché chi scrive trova assolutamente seducente il “nulla sarà più come prima” preconizzato da molti e ormai assurto a vero ipertesto dell’agenda del nuovo Inquilino di Palazzo Chigi, anche ben al di là delle sue intenzioni.
Almeno per la politica, che qualcuno già dà per spacciata, anzi schiacciata dal felpato stivale del banchiere, avallando così una lettura apocalittica in uso a contrabbandieri interessati a far passare per politica la scadente mercanzia spacciata finora. È invece verosimile che il nuovo governo sia destinato a centrifugare con la forza di un tornado schieramenti, alleanze e partiti fino a rendere irriconoscibili gli attuali assetti politici. Qua e là avvisaglie già se ne colgono, sotto forma di coalizioni spaccate (centrodestra) o abortite (sinistra+5Stelle). E così anche nei partiti, dove a prevalere sono le componenti governiste e filo-Ue fin qui oscurate nei rapporti interni. Giusto o sbagliato importa assai poco.
Quel che preme capire è se questo temporale omerico che sta per abbattersi sulla politica sarà anche in grado di favorirne la rigenerazione archiviando finalmente la lunga fase in cui essa è apparsa più posticcia di un incontro di wrestling. In tal senso, l’impenetrabile riserbo dietro cui il premier ha tenuto le sue consultazioni e l’autonomia nella scelta dei ministri promettono bene. Draghi ha paradossalmente scelto il silenzio per presentare quello che ha tutta l’aria di diventare il “Codice del cambiamento” che ne ispirerà la rotta.
Vi si legge che la politica è arte, fatica, studio e applicazione e non ciarla o vuota elencazione di priorità. Sembra poco, invece è una novità rivoluzionaria per partiti abituati a spacciarsi di lotta e di governo e a praticare lo scaricabarile in luogo dell’assunzione di responsabilità. In un sistema funzionante si è di governo anche stando all’opposizione. Nella sgangherata democrazia italiana accade puntualmente l’esatto contrario per la gioia dei cultori del wrestling e per quanti si accontentano che la comunicazione (cioè la percezione) prevalga sull’azione (cioè la concretezza). Al contrario, il codice-Draghi rivela che la vera partita comincia ora e ne dipenderà l’evoluzione o l’involuzione del sistema dei partiti. È questo il senso autentico e profondo della sfida sottesa alla nascita del governo Draghi. Non coglierlo fino in fondo equivale a sottoscrivere l’atto di abdicazione della politica dal primato che le spetta in favore di poteri altri, a quel punto legittimati dal perdurante stato d’eccezione. La posta in palio è questa. E si gioca sul contrasto alla pandemia e sulla capacità di rimettere in carreggiata la nazione spendendo in maniera strategica la pioggia di miliardi premessa del Recovery Plan. Che ci piaccia o non, Draghi premier fa dell’Italia il nuovo laboratorio politico europeo, molto più di quanto non sia riuscito alla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi o all’avvento di Beppe Grillo. Dopo aver sperimentato l’ascesa di un tycoon al governo e poi quella di un comico al potere, ora siamo i primi ad affidare ad una superstar della nomenclatura finanziaria globale la soluzione di un’emergenza senza precedenti.
Più di ieri, perciò, navighiamo in acque rese ancor più salmastre dalla confluenza di democrazia e post-democrazia, così come scolpita nella definizione del politologo britannico Colin Crouch. Non siamo i soli in Europa, anche perché la post-democrazia non è annunciata da un segnale o da un’indicazione ma è piuttosto l’esito di un lento e inesorabile svuotamento delle istituzioni rappresentative in favore di poteri oligarchici. Nessuno ne è esente. Ma l'Italia sembra precedere tutti in questo processo di decomposizione. Anzi, se è vero che in una democrazia decidono gli elettori mentre in una post-democrazia contano i mercati, siamo già a buon diritto nel campo delle seconde. E coglie certamente nel segno Giorgia Meloni nel sottolineare la nostra condizione di «democrazia di serie B» rispetto ad altre nazioni in cui il voto anticipato non è listato a lutto come una sciagura nazionale. Ma finisce fatalmente per confondere l’effetto con la causa. Già, perché proprio come la fisica neanche la politica tollera spazi vuoti.
Ma quanti ne ha lasciato il sistema dei partiti, inteso come destinatario e depositario della sovranità popolare? Tantissimi. E ad occuparli - secondo una ricerca de Il Mulino (La qualità della democrazia in Italia) - sono i poteri cosiddetti arbitrali o terzi che hanno avanzato specularmente all’arretramento dei poteri legittimati dal consenso popolare.
Se solo in pochi se ne sono accorti è perché nessuno ha sentito il rombo dello scontro o il clangore delle armi. Infatti, non ci sono stati. E questo perché la politica non solo non ha difeso il proprio primato, ma ha addirittura provveduto a disfarsene preferendo la legittimazione dei nuovi poteri alla propria rigenerazione. Sotto questo profilo, il governo Draghi è insieme punto di arrivo e di partenza.
Meglio, è un crinale che ci può consegnare irreversibilmente alle post- democrazie o, in alternativa, segnare un nuovo inizio. Con altrettanto disincanto va aggiunto che i primi passi falsi di alcuni ministri e una certa coazione a ripetere dei partiti lasciano intravedere come più probabile il primo scenario. Dovesse realmente accadere, non ne ricaverebbe beneficio nessuno e tutti ne sarebbero, a vario titolo, responsabili: chi ha detto “sì” a Draghi per non perdere (o riprendere) il potere e chi gli ha risposto “no” per non sporcarsi le mani. Viene in mente la Canzone del Maggio di De Andrè («per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti»). È di molti anni fa, ma vale ancora oggi.
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