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Immagine del redattoreValeria Bomberini

La vittoria indiana del G20


One Earth, One Family, One Future.

Ecco il motto ufficiale del vertice G20 che si è appena concluso, ospitato negli scorsi 9 e 10 settembre dalla capitale indiana Nuova Delhi.

Si parla di 120 milioni di dollari spesi per l’abbellimento della città per l’evento internazionale più importante che si sia svolto nella capitale indiana da anni. Venti Paesi presenti - che insieme rappresentano l’80% della produzione mondiale - più l’aggiunta di alcuni Paesi, per così dire, “ospiti”. Tra gli assenti, Putin e il più inaspettato Xi Jinping, che ha inviato al suo posto il primo ministro Li Qiang: due ospiti mancanti che insieme, va ricordato, rappresentano un quinto dei leader mondiali che erano attesi all’evento.

È stato un vertice atteso, che ha fatto parlare di sé non tanto per il contenuto quanto per la forma. Ma andiamo per gradi.

Partiamo dai risultati: il raggiungimento del consenso per una dichiarazione finale congiunta, annunciato dal premier indiano Narendra Modi. Un traguardo non troppo scontato, viste le premesse con cui veniva aperto l’incontro: una latente rivalità che si va consolidando tra India e Cina – emersa visibilmente già dal vertice dei BRICS, che ha anticipato il G20 - le varie divergenze sul cambiamento climatico e la situazione in Ucraina che rimane critica e su cui permangono le spaccature presenti in Europa.

Tuttavia, il comunicato finale è stato un successo molto diplomatico: sostegno al PIL, sostegno all’emancipazione delle donne e al loro coinvolgimento nelle attività produttive dei vari Paesi membri, libertà di espressione e di credo e la creazione di flussi migratori regolari e sicuri che possano contare su un processo di integrazione basato sulle abilità lavorative dei migranti.

C’è stato spazio anche per la questione più spinosa all’ordine del giorno, la guerra in Ucraina, che da 18 mesi divide la comunità internazionale: nessuna esplicita condanna a Mosca per l’aggressione, una mossa tattica che ha permesso quindi la firma della Russia, che ha definito infatti il comunicato “molto equilibrato”.

Insomma, quasi nessuna novità eclatante, fatta eccezione per l’atteso incontro tra la premier Meloni e il primo ministro cinese Li Qiang. Obiettivo: uscire dal Memorandum d’Intesa tra Italia e Cina firmato dal governo Conte nel 2019 che si sarebbe altrimenti rinnovato automaticamente a partire dal 24 marzo 2024.

Un’impresa all’apparenza quasi impossibile, senza temere un qualche tipo di rivendicazione cinese. Invece l’uscita - complice il fatto di averne già concordato i tempi ed aver preparato il governo cinese già da mesi - sembra essere stata abbastanza soft, una comunicazione più formale che anzi, ha voluto promuovere la volontà italiana di stabilire una nuova stagione di rapporti commerciali con Pechino.

Rapporti che, ovviamente, dovranno svilupparsi attraverso modalità meno “politiche”. È noto da tempo, infatti, che uno degli obiettivi primari del governo Meloni fosse quello di muoversi per riposizionare l’Italia in una posizione più netta rispetto all’asse Atlantico, una posizione che con l’entrata nella Via della Seta era stata in qualche modo confusa, specie dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, che ha fatto luce sull’ambiguità di Pechino dal punto di vista internazionale.

Ecco che allora proprio durante l’evento viene presentato un nuovo progetto, a cui parteciperà anche il nostro Paese, il Blue Dot Network (già soprannominata “Via del Cotone”): a conti fatti una gemella americana della Belt and Road Initiative cinese.

Si tratta di un corridoio logistico voluto fortemente dagli Stati Uniti, a seguito di numerosi negoziati segreti con gli altri Paesi coinvolti, soprattutto per riportare il focus in una regione su cui stava puntando fortemente Pechino negli ultimi anni e riacquisirne così l’influenza. Collegherà l’India con l’Europa, passando per il Medio Oriente, e vedrà come protagonisti India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Israele ed Europa.

Lo scopo è quello di stimolare gli scambi commerciali fra i Paesi coinvolti - contribuendo tra l’altro a migliorare i rapporti tra gli Stati del Golfo e Israele – oltre che migliorare la connessione digitale e garantire il flusso di risorse energetiche.

Un progetto ambizioso, che donerebbe sette giorni di vantaggio rispetto alla tratta commerciale in attivo che risale Suez, in cui anche l’Italia potrebbe assumere un ruolo rilevante, grazie alla sua posizione geograficamente strategica nel Mediterraneo.

Il corridoio si svilupperebbe in più step: il primo prevede una via marittima che partirebbe da Mumbai per raggiungere gli Emirati, dove il trasporto verrebbe poi dirottato su rotaia verso il porto di Haifa, in Israele, passando per l’Arabia Saudita e la Giordania.

Una volta raggiunto il Mediterraneo il traffico riprenderebbe la via marittima raggiungendo il porto del Pireo in Grecia, diramandosi poi per raggiungere tutta l’Europa.

I Paesi che hanno firmato dovranno perciò creare dei gruppi di lavoro entro 60 giorni e presentare una lista di progetti che riguardino tutti i settori coinvolti, come energia, ferrovie e ovviamente i finanziamenti necessari.

Al di là dei dubbi che stanno sorgendo, che riguardano le difficoltà di riuscita del progetto con la possibile reazione cinese alla concorrenza commerciale (soprattutto nei confronti dei Paesi del Golfo e Israele, che negli ultimi anni proprio con la Cina hanno rafforzato i rapporti commerciali e diplomatici), ciò che emerge chiaramente dagli eventi di questi giorni è la nuova veste indiana, che farà da centro nevralgico orientale per l’economia sviluppata mondiale. Dicevamo che il merito del vertice appena concluso è stato proprio quello di dare risalto alla forma più che al contenuto. E infatti, più che ai risultati di questo G20, dovremmo guardare proprio a come si è svolto e gli attori che hanno assunto un ruolo predominante nell’occasione. Il progetto del Blue Dot Network è infatti soltanto la presentazione di una nuova idea di assetto mondiale, che non vede più Pechino come il centro del “nuovo mondo”, ma mira più che altro a portare l’India – che ricordiamo, nel 2022 ha superato l’economia del Regno Unito in termini di dimensioni ed attualmente ha una crescita demografica costante che la rende il Paese più popoloso al mondo – nel suo posto al tavolo delle grandi potenze internazionali, fungendo da collante per le relazioni tra Occidente e Sud globale. Una scommessa su cui l’Occidente sta puntando molto per neutralizzare la crescente influenza cinese, ma su cui sta puntando molto anche l’India stessa, che ha fatto del G20 uno spettacolo di autocelebrazione per eccellenza: dalla decorazione pomposa di Nuova Delhi all’invito dell’Unione Africana come spettatrice dell’evento, alla scelta del Presidente Modi di utilizzare il vertice come veicolo per presentare il suo Paese come degno membro della comunità internazionale di primo livello.

Forse anche per questo la scelta di introdurre una nuova identità allo Stato, con la scelta di voler ribattezzare l’India come Bharat (termine sanscrito presente nelle antiche scritture) e conferire un nuovo volto al Paese, scelto dal Paese stesso.

Che sia un bigliettino da visita per garantire al presidente Modi la terza rielezione alle prossime elezioni, è innegabile che per l’India il vertice sia stato un successo innegabile.



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