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Nell'emergenza morale la politica affonda

Considerazioni a margine di una parola che è entrata nel lessico comune.

Emerge l'incapacità dei pubblici poteri di risolvere alcunché con procedure ordinarie.

Ci si danna l’anima attorno alla parola che ha arricchito il lessico politico: emergenza. Se provate a cercarne il significato in un qualunque dizionario della lingua italiana vi renderete conto che non ha niente a che fare con quello che oggi le si conferisce nelle discussioni, negli articoli giornalistici, nei dibattiti parlamentari e perfino nell’accezione comune. Essa qualifica ormai tutto ciò che fuoriesce dall’ordinario e che pure con metodi e sistemi ordinari potrebbe e dovrebbe essere affrontato. Emergenza sanità, emergenza scuola, emergenza criminalità, emergenza trasporti, emergenza ambientale, emergenza sociale, emergenza climatica, emergenza familiare, emergenza morale e così all’infinito. L’emergenza, insomma, non definisce più l’eccezionalità, ma la normalità, dal momento che pure la normalità non può che essere incasellata nella categoria dell’emergenza per il solo fatto di essere eccentrica rispetto a tutto il resto.

Paradossalmente se uno studente frequenta la scuola con profitto, se un artigiano fa bene il proprio lavoro, se un medico cura con scrupolo un paziente siamo nell’ambito dell’“emergenza”, proprio perché “emerge” da casi ordinari la “anormalità” che, invece, non dovrebbe destare, in una società minimamente sana, “scandalo”.

La nostra, purtroppo, è una società molto malata, dunque in endemico stato di emergenza. E questa “qualità” segna l’impotenza della politica, dell’amministrazione pubblica, delle istituzioni più varie a occuparsi di ciò che è banalmente semplice, lineare.

Di converso, quando ci si trova di fronte a ciò che ha oggettivamente tutti i caratteri della originalità, gravi o irrisolvibili, catastrofici o estremamente pericolosi, rischiosi o mortali l’emergenza non fa più effetto e tutto, di conseguenza, viene trattato e visto come ordinario. Ma c’è un altro motivo che fa rientrare ogni accadimento nell’ambito dell’“emergenzialità”: l’incapacità da parte dei pubblici poteri a risolvere alcunché attraverso le procedure ordinarie previste dalle leggi e dai regolamenti. Dunque, per fare alcuni esempi, dalla frana dei territori dovuta alla calamità naturale all’interruzione di un servizio pubblico, dalla evasione scolastica a quella fiscale , dall’invasione della immondizia all’aggressività di bestie che scorrazzano indisturbate noi centri abitati mettendo a rischio l’incolumità dei cittadini, nulla può essere affrontato senza saltare sull’emergenza e pretendere il varo di norme speciali, l’adozione di poteri straordinari, l’indizione di mobilitazioni elefantiache.

Per non dire che se tutto questo rientra nella nuova fattispecie (la quale, non dimentichiamolo, assume talvolta connotazioni addirittura “morali”), a maggior ragione vi rientra un’opera dalle dimensioni colossali, oppure l’organizzazione di un evento mirabolante, ma anche un pellegrinaggio che vede coinvolti milioni di fedeli.

L’emergenza, s’è capito, è molto di più del senso che ha assunto: è una vera e propria Weltanschauung, la sola possibile di questi tempi dove la sacralità dell’utile, della convenienza, dell’interesse è diventata totale, indiscutibile, non trattabile, proprio come le visioni del mondo di una volta.

Nel caos dell’emergenza volano ombre di indecifrabili creature, difficilmente definibili politiche, ancor più arditamente accostabili agli affaristi di un tempo.

Ibridazioni tecnologiche, forse, frutti di incroci sprezzanti della natura che, manco a dirlo, vogliono sottomettere, nel nome dell’emergenza naturalmente. Li si incrocia, questi mostri dalla faccia d’angelo, e li si riconosce depositari della religione emergenziale, non perché indossano una divisa, ma per l’aspetto viscido e lo sguardo corrucciato: aprono bocca soltanto per dire che la situazione è sempre comunque e inevitabilmente gravissima.

Ma cosa fanno i tecnici, i ministri, i geometri, gli spazzini, i cardiochirurghi? Forse qualcosa di tutto questo o niente di tutto questo. Importante è che minino la fiducia della gente, la scarnifichino, la devastino, la lacerino.

Officiano il rito supremo della Paura e su soffici poltrone televisive celebrano la loro gloria davanti a noi, pover’uomini e povere donne in preda al panico. Il pontificale laico dei sacerdoti della celebrazione del disfacimento finisce sempre con l’invocazione del sacrificio collettivo. Indispensabile. Civile. Generoso.

E se qualcuno osa insinuare dubbi sulla bontà dell’operazione emergenza?

Un untore, al quale il servo di turno che porge armonioso e ammiccante il microfono come un turibolo riserva lo scherno di cui è capace, come qualsiasi cameriere infedele. Non tutti, per fortuna, ci stanno.

Qualcuno, rintanato in terre incognite, ha ancora la forza di ridere amaro quando sente parlare dell’emergenza puttane, dell’emergenza transessuali, dell’emergenza cocaina perché non fatica a immaginare che materie di questa natura e molte altre affini debbano essere trattate secondo le modalità correnti allertando cittadini e forze dell’ordine, militari e mass media, intellettuali e mazzieri (altrimenti dette ronde). Agli ordini, naturalmente, di capi supremi che vanno a puttane, mantengono i trans, pippano coca e fanno leggi, regolamenti e statuti per assicurare la serenità a tutti.

Ma la politica dove è finita?

Dalla terra incognita non si scorge più neppure la sua ombra. Ci spiegano che è l’emergenza stessa ad averla assorbita. A che servivano, dopotutto, quei noiosi dibattiti parlamentari, quelle interrogazioni ai ministri, quelle ritualità desuete come cortei, comizi, dibattiti televisivi quando c’è bell’e pronta una scodellata di tecnocrazia capace di risolvere i bisogni di tutti, di placare le ansie collettive, di dare risposte fasulle a chi perde case, averi e fiducia nello Stato. Anche questa è un’anticaglia che l’emergenza ha spazzato via.

Del resto che ce ne facciamo di un ferrovecchio del genere: amministrare la giustizia, praticare un po’di politica internazionale, gestire ricorse economiche? Ma sono tutte emergenze, non lo avete (non lo abbiamo) ancora capito?

Tecnocrazia, burocratismo, affarismo: una triade “venerabile” sulle cui gambe l’emergenza divora la società.

E poco male se in questo cantuccio, riparato dalle tre membra della nuova statualità (se così si può dire senza offendere un’antica tradizione), s’è fatto un nido caldo la nuova corruzione, non quella esposta alle tempeste, ma la morbida, elegante, ammiccante corruzione che non si può più neppure chiamare così, bensì efficientismo democratico, o, se preferite, decisionismo oligarchico al riparo da indiscreti occhi e ancor più volgari orecchie.

Avete capito benissimo, anche se come me ci siete arrivati piuttosto tardi.

La sola, grande emergenza che possiamo e dobbiamo riconoscere, non riconducibile a nessuna forza politica specifica (sarebbe limitativo), ma alla putrefazione dello spirito pubblico, è l’emergenza morale. Di fronte a essa siamo tutti impotenti. Osservando i movimenti sussultori di anime ingrigite dalla fuliggine del conformismo, avverto la necessità di una rivolta morale. Ma ci vorrebbe un Dio a guidarla.

E dove lo troviamo di questi tempi quando anche la religione è diventata un’emergenza?

No, toglieteci gli intellettuali vili e prezzolati, relegate in un pozzo nero i moralisti a borderò, seppellite sotto le loro inutili cattedre gli accademici che non sanno articolare un brandello di pensiero. E ridateci i santi che sul carro dell’emergenza non hanno mai voluto salire. I santi e gli iconoclasti nemici della democrazia giacobina, quella officiata soltanto dai malnati demagoghi.

Forse le preghiere degli uni e le violente, beffarde, blasfeme invettive degli altri attizzeranno l’esercito degli apologeti dell’emergenza facendolo venir fuori dalla sua confortevole tana, in modo che il popolo li guardi in faccia e li riconosca per quello che sono: piccoli, voraci, famelici prodotti partoriti da una politica senz’anima, della cui emergenza non si parla nei salotti dove non entra il fango dei disperati e nei bordelli in cui si pontifica d’una Italia che non c’è.


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