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Paradisi fiscali targati Regno Unito

Con la rete territoriale d'oltremare Londra domina il sistema dell'evasione mondiale.

Dopo la Brexit i Paesi satelliti inglesi hanno procurato agli altri Stati perdite per oltre 160 miliardi.

La globalizzazione finanziaria ha fatto riemergere con piena evidenza la questione dei c.d. paradisi fiscali, essenzialmente territori autonomi caratterizzati da un regime di tassazione molto ridotto o addirittura assente ed un’elevata segretezza bancaria.

In effetti, la libera circolazione dei capitali ha moltiplicato le possibilità di esporre tali territori ad essere sfruttati per scopi illeciti come il riciclaggio di denaro, l’evasione fiscale o il finanziamento del terrorismo, ragion per cui vengono inseriti in specifiche liste dette “black list” redatte da vari organismi internazionali quali l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico).

I Paesi che compaiono in questi elenchi vengono osservati con un’attenzione particolare da parte delle autorità e sono sottoposti a svariati controlli proprio in relazione alle loro caratteristiche ed i possibili rischi connessi.

Il rapporto The State of Tax Justice 2020: Tax Justice in the time of COVID-19 (2020) redatto dal Tax Justice Network (TJN) analizza l’evasione fiscale sia globale che dei singoli Stati, calcolando anche quanta di essa venga effettuata per mezzo di paradisi fiscali.

Si stima che a livello mondiale ben $427 miliardi siano oggetto di evasione, comprendendovi quella messa in atto sia dalle multinazionali che dai privati, e di cui i principali Paesi responsabili sono (nell’ordine): Isole Cayman, Regno Unito, Olanda, Lussemburgo e Stati Uniti.

Non stupisca l’elenco che precede; anche se la maggior parte delle persone che è a conoscenza dell’esistenza dei paradisi fiscali, quasi sempre, li identifica con Stati come la Svizzera, il Lussemburgo o le Isole Cayman. In effetti, ciò di cui invece molti sono all’oscuro è l’esistenza di una “ragnatela” di tax haven collegati tra loro ed al cui centro è posta la città di Londra.

È proprio grazie alla sua rete di territori d’oltremare (e dipendenze della Corona) che il Regno Unito riesce a non essere qualificato ufficialmente come un paradiso fiscale. Quello che viene operato su queste giurisdizioni, tra le quali figurano alcuni dei maggiori tax haven al mondo, come le Bermuda o le stesse Isole Cayman, è infatti solitamente un controllo che passa da via informali nonostante sia in realtà riconosciuto anche a livello legislativo.

Il vantaggio è indubbio: mantenendo “nascosto” il proprio potere ed influenzando in maniera non ufficiale i governi di questi territori, Londra può affermare che essi siano politicamente autonomi.

Ad oggi, quasi la metà dei paradisi fiscali presenti in tutto il mondo sono dipendenze britanniche.

Molti dei paradisi fiscali facenti parte della rete londinese non sono attualmente presenti nella black list dell’Unione Europea e l’attuarsi della Brexit ha consentito al Regno Unito di liberarsi dei vincoli posti dall’UE in termini di trasparenza e non solo.

L’insieme di questi due aspetti ha portato chiaramente ad un notevole aumento del rischio che vengano svolte attività illegali.

Un’analisi che si voglia approfondita del fenomeno dovrebbe fornire una panoramica generale sui tax haven, la definizione e le principali caratteristiche all’esposizione di alcuni dati circa l’evasione realizzata non solo attraverso i paradisi fiscali in generale ma anche quella messa in atto, nello specifico, per quanto attiene all’impatto sul nostro Paese (da Italia e Regno Unito).

In secondo luogo ci si dovrebbe concentrare sulla normativa di riferimento per i tax haven, a partire da provvedimenti ed indicazioni di carattere internazionale da parte di organismi come l’OCSE, il FMI, il GAFI ed il Moneyval, fino a giungere alla regolamentazione fiscale specifica del Regno Unito, considerando anche il cambiamento post Brexit. Infine, dovrebbe essere trattata la “situazione” di Londra e della sua ragnatela e, in particolare, il legame che intercorre tra Londra ed i suoi satelliti. Non sfugge, infatti, come con la Brexit, Londra si accinga effettivamente a diventare la nuova “Singapore sul Tamigi”.

Dopo la Brexit, dunque, pongano attenzione i nostri governati dell’impatto che ciò determina sui Stati del vecchio continente e sulle nostre finanze.

Per farcene un’idea, a livello di evasione effettuata sia da aziende che da privati, ai vertici delle classifiche stilate dal Tax Justice Network a tutt’oggi, vi sono alcuni dei principali satelliti inglesi, i quali risultano complessivamente responsabili di perdite inflitte ad altri Stati per oltre $160 miliardi.

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