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Quell'Italia così violenta

No, non c’entra niente il concetto filosofico.

Non si parla qui della “levatrice della storia”, né delle riflessioni soreliane che hanno segnato la storia della cultura e della politica del Ventesimo secolo.

Neppure è il caso di scomodare i rivoluzionari di varia tendenza per tentare un approccio ad un tema tanto vasto e così difficile da decifrare.

Baby Gang

Intendo, molto più modestamente, riferirmi alla quotidianità segnata da un orribile adattamento da parte di tutti noi alla violenza.

Che sia effimera, estesa, sistematica, episodica ha poca importanza.

Quel che rileva è la sua carica devastante che ha contagiato le nostre abitudini, i rapporti interpersonali, perfino gli svaghi.

Negli stadi e nelle piazze, nelle private dimore, nelle scuole, nelle fabbriche e negli uffici, addirittura nelle aule parlamentari la violenza ha fatto irruzione con la forza di uno tsunami.

Fermarla è impossibile.

Ci si adatta, quando è il caso, a conviverci considerandola parte della nostra condizione umana.

Per quanto possa sembrare assurdo è così.

Ognuno, naturalmente, è libero di spiegare come meglio ritiene questo fenomeno talmente coinvolgente che perfino i più miti ne restano in qualche misura soggiogati.

E perciò non mi sembra il caso di formulare ipotesi che valgano a definirlo nei suoi prodromi, nel dispiegarsi e negli effetti che procura.

La materia è sotto gli occhi di tutti e tutti sono consapevoli della sua complessità. Resta, tuttavia, l’interrogativo principale al quale è impossibile sfuggire: perché la conflittualità, su ogni cosa, è diventata accesa al punto di accecare la ragione?

Ad elencare i numeri di quest'anno è l'ultimo report della Direzione centrale anticrimine della polizia che - tra le altre cose - ci dice che, delle 109 vittime, 93 sono morte in ambito familiare o affettivo e 63 per mano del partner o dell'ex partner.

Nello specifico, nel 36% dei casi, l'autore del femminicidio è il marito o il convivente, il 20% sono fidanzati o ex e il 36% ex mariti o conviventi.

La violenza di genere non è solo questione di femminicidi: sono tante e diverse le forme di abuso che le donne subiscono, dalla violenza psicologica (77,3%) a quella fisica (60% circa dei casi), dalla violenza economica (33,4% secondo i dati riportati dall’Istat) a quella sessuale (15,3%). Poi c'è lo stalking (14,9%), ci sono le molestie per strada, fenomeni da non sottovalutare perché spesso danno luogo a brutali manifestazioni di sopraffazione.

Altro fenomeno in pericolosa espansione è quello delle baby gang.

L’allarme causato dalla criminalità organizzata minorile è dovuto non solo alla giovanissima età dei componenti dei gruppi, ma anche alla sensazione di pericolo e impotenza avvertita dalla popolazione, determinata in particolare dalla crescente aggressività con cui vengono perpetrati i crimini.

Le baby gang sono gruppi di soggetti minorenni che si costituiscono spontaneamente ed assumono comportamenti violenti, talvolta utilizzando le nuove tecnologie comunicative, compiendo crimini di vario genere.

Pur avendo punti di contatto col bullismo le baby gang sono differenti da quest’ultimo.

Il bullismo, infatti, non è necessariamente un fenomeno di gruppo: nella maggior parte dei casi, infatti, gli atti violenti a cui danno vita sono perpetrati da un solo soggetto, mentre coloro che vi partecipano sono semplici spettatori.

E poi gli atti compiuti dai bulli hanno la caratteristica della continuazione nel tempo (come è stato osservato da un’acuta disamina dalla rivista “Cammino diritto”), poiché commessi ripetutamente ai danni della medesima vittima.

Ciò che invece le contraddistingue dalle organizzazioni criminali composte da adulti è la violenza gratuita che le caratterizza, a differenza di queste ultime che agiscono con ferocia solo ove risulti utile ai propri interessi economici, a scopo intimidatorio o punitivo nell’ambito delle loro attività criminose, quali il traffico di stupefacenti e le estorsioni.



Venute meno alcune categorie dell’ordine morale e civile, non si può pretendere che quelli che una volta erano contenziosi ordinari, perlopiù banali, si risolvano pacificamente.

C’è dunque chi si sente votato ad imporre il proprio punto di vista e spesso eccede fino a seminare morte per accaparrarsi ciò che non gli è dovuto, come il suo piacere proibito o la depredazione di beni materiali.

Si spiegano così anche i recenti fatti di cronaca che gettano una luce inquietante sullo stato di decomposizione della nostra società.

C’è anche nel gesto violento minimo un ché di barbaro e di disumano che non può avere altra motivazione se non quella del disprezzo dell’altro, il disconoscimento della dignità umana.

Si ritiene giusto predare ciò che si vuole perché è inammissibile sentirsi esclusi: questa è la credenza prevalente in ogni ambito e, dunque, non soltanto in quelli dove l’emarginazione crea il risentimento.

La violenza è il prodotto, dunque, più maturo di una cultura dell’egoismo elevata a modello comportamentale, a teorica sociale; una sorta di neo-darwinismo nella considerazione che la specie non deve progredire, ma regredire allo stato primario, elementare.

Del resto se il mondo non ha un ordine, come si può pretendere che chi lo vive non si adegui nel perseguire la conquista di ciò che non è suo?

E l’ordine è stato disconosciuto dal permissivismo illogico che ha puntato sul soddisfacimento elementare, in taluni casi addirittura codificato, l’estrinsecazione della libertà estrema.

Sicché la bellezza, la felicità, l’onore, la sobrietà – per citare soltanto alcuni valori antichi e perenni nonostante tutto – sono stati travolti dall’inquieto egoismo portatore di esclusioni e di morte.

La violenza sui corpi degli indifesi, siano essi bambini concepiti e non ancora nati o malati in stato vegetativo, è la più delinquenziale delle violenze che pure vediamo esaltata da leggi e letteratura sempre in ossequio a quella libertà disordinata che nega in radice l’essenza stessa della libertà.

La violenza sulle donne, da possedere contro la loro volontà o da sfruttare per illeciti arricchimenti riempie di desolazione il nostro tempo così avaro nel riconoscere sul corpo femminile l’impronta divina che lo rende bello e desiderabile.

La violenza che esercitano gli Stati senza ragione sui cittadini a cui dovrebbero provvedere è scandalosa almeno quanto quella che le società avanzate, evolute, affluenti esercitano sui bambini massacrandoli con gli stereotipi che vengono forniti dalla televisione e da certa pubblicistica, oltre che dalla brutalità criminale di chi si approfitta di loro come se fossero delle cose.

La violenza che subiscono le minoranze religiose è il segno di un’epoca senza Dio poiché se essa venisse riconosciuta nessuno alzerebbe la mano sul vicino considerandolo comunque figlio di Dio.

La violenza con cui viene mercificato qualsiasi sentimento a puro fine di realizzare profitti non è soltanto scandalosamente immorale, ma perverte il mercato stesso facendone un idolo mentre è soltanto uno strumento di veicolazione economica e di scambio.

La violenza del linguaggio giornalistico, letterario, cinematografico, artistico, l’assorbiamo quotidianamente schiacciando un semplice pulsante o girovagando in una libreria.

Dove non dovrebbe entrare assolutamente, la violenza s’insinua invece subdolamente: nelle case, nelle famiglie, dove, come la cronaca dimostra, si consumano orrendi sabba che nulla hanno di umano.

Il catalogo è ampio, come si sa; potremmo continuare a sfogliarlo all’infinito.

Ne varrebbe la pena, naturalmente, ma soltanto per affermare che le fattispecie nelle quali ci imbatteremmo segni della dissoluzione del legame sacrale che dovrebbe esserci tra l’uomo e la divinità, tra la legge scritta ed il diritto naturale, tra i comportamenti e l’astratta spiritualità nella quale tutto si tiene.

Ma chi potrebbe oggi, in questa autentica “età del ferro”, insegnare a quanti hanno disimparato i fondamentali dell’esistenza, che esiste un’altra possibilità di vita al di là del primitivismo elevato a comportamento virtuoso?

Le istituzioni, lo Stato, le agenzie di orientamento formativo?

Non ho una risposta. Lo so, è desolante.

Ed è questa la peggiore violenza che avverto su di me.

Vorrei sottrarmi, ma non credo di averne le forze.

Può darsi che il peggio debba ancora venire affinché una reazione determinata e a livello del fenomeno si manifesti al fine di ricondurre le nostre fragili società alla ragione.



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