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Se la scuola e la famiglia perdono le loro identità

Per secoli le due istituzioni sono state a fondamento della civiltà occidentale assicurando stabilità e sviluppo sociale

Nel corso della recente campagna elettorale, tra le molte dimenticanze da parte delle forze politiche vi sono state la famiglia e la scuola. Non è stata dedicata loro neppure una breve considerazione.

Nessuno ha ritenuto di analizzare la loro decadenza.

Due istituzioni che per secoli sono state a fondamento della civiltà occidentale, quasi non esistono più nelle forme e nelle strutture che hanno assunto nel tempo, assicurando la stabilità ed il divenire sociale in maniera ordinata secondo i dettami del diritto naturale. Tanto la famiglia, quanto la scuola sembrano disconnesse dalla loro stessa funzione e si auto-rappresentano come aggregazioni anarchiche prive di moralità innanzitutto e del carattere che dovrebbe segnarle.

Nel tempo, sia l’una che l’altra hanno favorito lo sviluppo delle comunità intorno ad un’idea anch’essa messa in discussione e sostanzialmente sconfessata: il principio di autorità.

Adesso raccogliamo i frammenti di una catastrofe in entrambe le entità. Famiglia e scuola infatti “soffrono” la mancanza di identità, non sanno più che cosa sono, né tantomeno quali dovrebbero essere le loro specifiche funzioni. La prima è divenuta una sorta di clan privo di regole, un coacervo/ricovero informe di individui legati da una indeterminata “affettività” quando non da interessi estranei alla formazione di una omogenea struttura fondata sul matrimonio e deputata essenzialmente alla procreazione, centrata sull’autorità genitoriale ed orientata alla continuità della società di appartenenza attraverso la trasmissione di valori non negoziabili. La seconda, estensione naturale della famiglia, della quale riproduce nella figura del corpo docente l’autorità genitoriale, votata essenzialmente al completamento della formazione attraverso la conoscenza ha tradito la sua vocazione rabberciando nozioni e stilemi esistenziali sganciati dallo studio del passato e affatto proiettati nell’avvenire.

Famiglia e scuola possono oggi pensarsi insieme come è stato in un passato purtroppo assai lontano?

Da quanto si vede la risposta non può che essere negativa. L’una è divenuta una palestra di sperimentazioni di convivenze tra diversi di ogni tipo, fino all’acquisizione del diritto genitoriale nascente da immonde compravendite di fecondazioni e di embrioni.

L’altra asseconda gli stereotipi pedagogici di un progressismo culturale trasgressivo fondato sull’empirismo e sull’arbitrarietà dell’insegnamento propri di una pedagogia sostanzialmente anarchica, ostile all’autorità identificata come fondamento di ogni nequizia e ostacolo allo sviluppo della coscienza dei giovani.

Basta dare un’occhiata all’universo formale familiare non tradizionale e ai programmi scolastici per capire che è in corso la scientifica demolizione dei due pilastri civili e morali sui quali la storia occidentale ha edificato se stessa assecondando la propria natura.

Aristotele descriveva la famiglia come un nucleo di persone atto a garantire il proseguimento del genere umano: niente di più lontano dalle coppie di fatto o dalle unioni civili che pretenderebbero di avere lo status familiare senza possederne i presupposti, né perseguendone le finalità. Il concetto aristotelico, che è poi quello “ordinario” vigente nell’antichità ed al quale si sono conformate tutte le società uscite dal primordiale tribalismo, codificato dal diritto romano ed elevato a livello religioso dal cristianesimo, non diversamente da altre confessioni che pur ne riconoscono un’intima sacralità, ha determinato il corso dell’umanità che nella famiglia tradizionale, vista come un insieme di persone composto da due adulti di sesso opposto, capaci di procreare dei figli, ed allargata ai parenti prossimi - a cominciare dai nonni, continuatori della tradizione e testimoni di un passato teso a rinnovarsi nei giovani - con l’innata vocazione a formare il nucleo riconoscibile delle società civili stabilito in una casa, luogo per eccellenza indoeuropeo, nella quale dispiegare riti e consuetudini attorno alle memorie condivise e secondo i costumi del proprio mondo conformi a quelli della cultura di appartenenza. Costumi considerati il completamento della famiglia stessa e garanzia per il futuro del genere umano. Il cemento dell’istituzione famigliare è l’amore, più che una parola convenzionale, un vivo sentimento di affetto verso persone che hanno stabilito legami finalizzati agli scopi cui si accennava. Il cedimento verso forme simil-familiari, giustificato dalla libertà senza limiti, né regole, ma dal solo arbitrio ha generato sia il fallimento dell’istituzione “innovata”, sia lo sviluppo dei figli in modo naturale al punto che perfino padre e madre vengono considerati da ambienti illuministicamente formati come “genitore uno” e “genitore due”. La tendenza abominevole è quella di abrogare le figure paterna e materna per aprire la strada ad una “genitorialità” vaga e perfino mostruosa, nel cui ambito due maschi o due femmine possono essere padre e madre nello stesso tempo.

La fine della famiglia, della società, del consorzio umano. E non staremo qui a ragionare di istintivi traumi nei bambini allevati in maniera tanto innaturale da essere francamente perversa.

Il capovolgimento della razionalità occidentale genera disastri come la teoria gender e l’apertura con il crisma della normalità alla “famiglia omosessuale”, negazione del principio familiare stesso. In breve, la teorizzazione della fine del genere umano dal momento che l’impossibile procreazione apre naturalmente alla scomparsa di buona parte del genere umano.

Le politiche demografiche dovrebbero occuparsi della “trasformazione” fino all’autoannientamento della famiglia prima di proporre a giustificazione dell’aumento delle culle vuote ragioni economico-sociali quando esse sono essenzialmente morali e culturali.

Così come il deperimento della scuola, dell’insegnamento, dell’apprendimento, della formazione delle giovani generazioni non possono che essere imputate allo stravolgimento della stessa concezione del sapere in voga in Occidente, ed in particolare in Italia, da almeno mezzo secolo.

Celebrando di recente i “fasti” del Sessantotto qualcuno, pur avveduto, ha dimenticato di segnalare che il “nuovo corso” scolastico si è imposto attraverso la veicolazione dell’ideologia egualitaria che nel mentre si applicava alla distruzione della famiglia coerentemente proiettava lo stesso progetto nell’annullamento della scuola dal cui disfacimento, si diceva, sarebbe nata una società nuova connessa ad una umanità libera fondata sul non meglio precisato “amore” e non più sul “reazionario” matrimonio.

Dalle molte riforme scolastiche susseguitesi nell’ultimo cinquantennio almeno in Italia - tutte volte a peggiorare l’istruzione - è venuta fuori una forma di insegnamento e di apprendimento senza passato, priva di memoria, fondata sulla nullificazione del pensiero critico e volta ad accrescere un nozionismo “basico” per disavventura degli studenti propedeutico al dispiegamento di fantasiose facoltà universitarie che non offrono assolutamente nulla nella prospettiva di esercitare una professione. Naturalmente la cultura classica è stata sacrificata alla glorificazione di una pseudoscientificità che è uno dei motivi dell’abbandono degli istituti formativi italiani per quelli stranieri da parte di molti studenti o neo-laureati.

La scrittrice britannica Dorothy Leigh Sayers (1893-1957), piuttosto sconosciuta in Italia, autrice della migliore traduzione in inglese della Divina Commedia, divenne celebre per una conferenza tenuta nel 1947 a Oxford: The Lost Tools of Learning. Gli “strumenti perduti”, di cui parla il titolo, sono quelli dell’educazione classica. E proponeva - da studiosa di medievistica - un’organizzazione degli studi, dalla prima infanzia fino all’inizio dell’età adulta, fondata sull’antica divisione tra le arti del trivio (grammatica, logica, retorica).

Potrebbe essere ritenuta bizzarra la proposta, ma non tanto se si considera che il primo fallimento scolastico che di solito si registra nei discenti è nella difficoltà di fornire gli strumenti mentali necessari all’apprendimento.

E, sia pur semplificando, la riforma scolastica di Giovanni Gentile si fondava proprio sull’intento di sanare questo iato unitamente alla mancanza di “pensiero critico” nelle giovani generazioni. Nacque così la scuola per tutti, abbienti e meno abbienti, ritenuti secondo il valore dimostrato meritevoli di accedere a scuole che il classismo dell’epoca precludeva a coloro che appartenevano ad un’Italia ritenuta ingiustamente “minore”.

Oggi di quella riforma, copiata ed adattata a tutte le latitudini, non resta sostanzialmente più nulla. La scuola è vuota, come le culle. E l’immiserimento morale e culturale del nostro Paese - ma anche di buona parte dell’Occidente - lo si deve al cedimento dell’istituzione formativa più importante da millenni a questa parte.

Ernesto Galli della Loggia ha dedicato qualche anno fa un saggio tagliente e crudo al disfacimento scolastico: L’aula vuota (Marsilio), un testo che docenti, politici, intellettuali dovrebbero religiosamente meditare, magari tremanti un po’ di fronte alle verità che rivela. Già tempo fa Galli della Loggia, dalle colonne del “Corriere della sera” auspicò un leggero innalzamento della cattedra su un predellino, come una volta, tanto per ribadire la necessaria ed opportuna distanza tra docenti e discenti, ricordando, anche simbolicamente, il principio di autorità al quale conformarsi nell’educazione scolastica.

Nel suo libro, lo storico animato da vena polemica, asserisce: “La cultura alla fine significa semplicemente la possibilità per ognuno di noi di uscire dalla propria particolarità e di mettersi in relazione con il mondo passato e presente, con tutti i suoi pensieri, i suoi protagonisti e i suoi fatti, raggiungendo così una pienezza di vita altrimenti impossibile”.

Chi può dire che oggi la scuola, così come è strutturata, con la sua pedagogia “matrigna”, con i suoi testi davvero “vuoti” introduca alla relazione con il passato e il presente?

Il passato, invero, è espunto; del presente c’è solo cronaca di moneta grossa; il futuro nemmeno lo si riesce ad immaginare. E così nelle menti dei giovani non trovano posto letteratura e poesia, storia e geografica, filosofia e musica, arte e scienze, ma soltanto le loro parodie.

“È impossibile - osserva Galli della Loggia - immaginare l’istruzione senza collegarla ad una trasmissione di valori, di principi e di conoscenze, che non abbiano in qualche modo lo sguardo rivolto all’indietro: che cos’è questa lingua che parlo? Che cosa c’è stato prima di me? Che cos’è questo Paese e questo Stato di cui sono cittadino?

Che rapporto ho con il mondo?”

Insomma, senza conoscere la continuità che ci ha fatto ciò che siamo può accadere che “i nuovi venuti, la generazione più giovane, non sapendo nulla del mondo in cui arrivano lo mettano a soqquadro, lo lascino andare in rovina, e per pura e semplice incoscienza lo distruggano”.

E più di recente, sul Corriere della sera del 22 ottobre scorso, ha aggiunto: “La crisi del sistema dell’istruzione ha un significato ancora più vasto e grave. La scuola che c’è è una scuola che — non per colpa di chi in essa lavora ma a causa dell’impostazione che le è stata data da scelte politiche sconsiderate — non ha come sua stella polare l’importanza cruciale del sapere, non motiva allo studio, non pone al primo posto il merito e quindi non educa in questo senso le nuove generazioni.”Insomma, secondo l’autorevole editorialista, “è una scuola che non riesce neppure a insegnare ai suoi alunni (ci riesce infatti solo la metà) a comprendere il significato di un testo scritto non in cinese ma in italiano.

È insomma una scuola che a dispetto di tutte le sue intenzioni non aiuta la società italiana a essere migliore, più dinamica, più competente, più colta, più civile”.

Esagerato parlare di tragedia sociale? Non ci sembra. Mentre ci appare francamente demenziale il fatto che la scuola (unitamente alla famiglia con annesse problematiche demografiche), sia sparita dall’orizzonte politico nel quale perfino il riformismo eccessivo di un tempo non viene più considerato come fattore di disgregazione della stessa.

La “riformite” - vero male del nostro tempo, mentre riforme che on ti o a conservare ciò che neppure dovrebbe essere sfiorato - ha distrutto prima la famiglia e poi la scuola.

Tanto per la prima quanto per la seconda, l’obiettivo dei progressisti, in buona sostanza raggiunto, è stato quello di costruire una comunità di liberi ed uguali, privi del riferimento dell’autorità, autorizzati ad autoeducarsi. Vale a dire ad agire arbitrariamente seppellendo il diritto naturale ed il buon senso.

Le rivoluzioni prima o poi finiscono per divorarsi.

La preoccupazione è che hanno divorato tutto ciò che meritava di esistere. Non sarà facile, semmai dovesse accadere, di reinventare un’umanità dissolta.



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