Nel 1982 s’era celebrato il centenario della morte di Giuseppe Garibaldi (era morto il 2 giugno del 1882, a Caprera) e la ricorrenza sembrava che facesse sentire ancora molto vicina la Sua straordinaria figura di eroe e di patriota. Inevitabilmente si doveva passare al bicentenario della nascita, avvenuta il 4 luglio 1807, a Nizza, e duecento anni sembrano improvvisamente tanti, anche perché negli ultimi trenta anni si è cercato di demolire quanto più possibile tutto quanto di grandioso, quasi di sovrumano, la sua passione, la sua audacia, il suo amore per l’Italia e per il prestigio degli Italiani aveva innalzato nella memoria perenne, e nell’ammirazione perenne, non solo degli Italiani, ma degli abitanti del Vecchio e del Nuovo Mondo. La figura dell’eroe, a partire dal dopoguerra, ha cominciato a dare fastidio, come quelle dei santi e dello stesso Gesù Cristo: molto meglio i meschini, i miserabili, così ben descritti nel cinema italiano.
Qualche risultato questa forsennata demolizione lo ha prodotto, ma hai voglia a scalpellare: il monumento storico piantato nei cuori e nelle menti degli Italiani non s’è scalfito minimamente; si parla ovviamente di Italiani, con la I maiuscola, non dei rinnegati, dei patrioti da cortile, per i quali il mondo finisce là dove finisce l’aia della loro casa, ma di quelli per i quali dal Brennero a Pantelleria “è tutta Italia mia”. Quelli stessi che ringraziano Garibaldi per aver rischiato la vita per l’Italia più lui in cinque minuti che tantissimi di noi in tutta la vita.
E’ quanto meno doveroso rivivere, almeno rapidamente, e, purtroppo parzialmente, quel suo vissuto, la cui rilettura tanto scalda ed emoziona di fremiti ogni qual volta la si ripercorre. La vita rude e avventurosa era cominciata fin dalla prima giovinezza, quando, ancora quasi ragazzo, Garibaldi aveva cominciato a navigare, prima come mozzo, poi come marinaio e, infine, come capitano di una piccola nave mercantile in Oriente.
Nel 1833, mentre era in una locanda di Taganrog, piccolo porto sul Mar Nero, parlando con Giovanni Battista Cuneo (1809-1875), affiliato alla “Giovane Italia”, ebbe la prima visione della Patria oppressa e i primi, precisi ragguagli sulla politica mazziniana. I discorsi di Oneglia sfondarono, come si dice, una porta aperta e Garibaldi fu convinto all’istante della necessità e della giustezza delle lotte per l’indipendenza e l’unità dell’Italia.
E fu “iniziato”, come disse egli stesso, “ai sublimi misteri della Patria”, iscrivendosi alla “Giovane Italia”, per offrirsi in prima persona alla causa nazionale. Non esitò ad arruolarsi come semplice marinaio su una fregata della marina da guerra sarda per collaborare alla sommossa che avrebbe dovuto facilitare la spedizione destinata a invadere la Savoia e i moti di rivolta in Genova e nel Piemonte.
Fin da quel primo gesto, Garibaldi rivelò la caratteristica dominante di tutta la sua straordinaria vita: la mirabile audacia e la prontezza nell’accompagnare al pensiero l’azione.
La colonna dei volontari penetrata in Savoia, però, fu rapidamente assalita e dispersa dalla polizia, mentre anche a Genova il moto insurrezionale falliva (febbraio 1834), il tutto seguito da repressioni gravissime. Garibaldi, per fortuna dell’Italia, riuscì a scampare in esilio, mentre una condanna a morte (3 giugno 1834) colpiva lui, come colpiva Giuseppe Mazzini (1805-1872).
Da Marsiglia s’imbarcò per Rio de Janeiro (dove giunse tra il dicembre 1835 e il gennaio 1836), proseguendo la sua vita rude e combattiva, che doveva presto metterne in risalto, insieme con la generosità dell’animo, le doti eccezionali di condottiero e di uomo d’azione. Fu, infatti, combattente valorosissimo nelle lotte che agitarono il Brasile, e poi nella lotta dell’Uruguay contro l’Argentina.
Qui, nel 1839, conobbe, come tutti sanno, Anna Maria Ribeiro, detta Anita (1821-1849), sua compagna di vita e di ideali. Mentre era a Montevideo (capitale dell’Uruguay), gli giunse dall’Italia la notizia della rivoluzione di Palermo (ne parleremo più avanti), che lo spinse a imbarcarsi, il 12 aprile 1848, con una parte dei volontari italiani (che già aveva comandato nella guerra civile dell’Uruguay), al fine di portare il suo contributo alla liberazione della Patria dall’odiato straniero. L’azione decisa dal re di Sardegna, Carlo Alberto (1798-1849), sollevò, in Italia, generali entusiasmi e ardenti speranze. Nuclei di volontari, che volevano combattere per la “guerra santa”, si costituivano dovunque.
Anche Mazzini lasciava l’esilio londinese, nel mese di aprile del 1848.
Garibaldi approdò a Nizza, dove, con sorpresa dei suoi amici mazziniani, dichiarò di “non essere repubblicano, ma italiano”: era la prima presa di distanza da Mazzini, che diverrà totale ed esplicita, poi, nel 1854, come vedremo. L’Eroe fu, però, accolto un po’ freddamente dal governo sardo, ciononostante ebbe modo di guidare un gruppo di volontari con il suo solito patriottismo valoroso, ardente e generoso, in quella che passerà alla Storia come “Prima guerra d’Indipendenza”. Sconfitto Carlo Alberto (Armistizio di Salasco, 9 agosto 1848), Garibaldi tornò a Nizza, da dove, il 24 ottobre, ne ripartì, con alcune centinaia di volontari, alla volta della Sicilia, invitato da Paolo Fabrizi (1805-1859); ma, fermatosi in Toscana, dove i democratici, guidati da Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873) e Giuseppe Montanelli (1813-1862), avevano rovesciato il partito moderato e preso il potere con il programma di indire la “costituente italiana”, offrì poi la sua spada alla Repubblica Romana.
A Roma, difatti, dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi (1787-1848), il 15 novembre del ’48, erano seguite violente manifestazioni popolari e il Papa, Pio IX (1792-1878, pontefice dal 1846), spaventato, era fuggito verso Gaeta, sotto la protezione del Re di Napoli, Ferdinando II di Borbone (1810-1859, soprannominato Re Bomba dopo il bombardamento di Messina del 7 novembre 1848).
Allora i democratici, padroni della situazione, convocarono una Costituente, che il 9 febbraio 1849 proclamò la “Repubblica Romana”.
Era il trionfo di Mazzini, che giunse a Roma fra deliranti acclamazioni, e fu poi assunto alla testa della Repubblica, come Triumviro, assieme a Carlo Armellini (1777-1863) e ad Aurelio Saffi (1819-1890). Ma il Papa, da Gaeta, continuava a rivolgere appelli alle Potenze cattoliche, affinché lo aiutassero a liberare Roma dai “violenti” che se ne erano impadroniti: così venivano definiti i patrioti che avevano proclamato la Repubblica Romana e la governavano. Garibaldi dapprima fu tenuto in disparte, a Macerata, che lo nominò deputato alla Costituente, e poi a Rieti, infine fu chiamato a Roma per l’ultima difesa contro i Francesi.
Con lui, nominato capo di una parte dell’esercito, vi erano patrioti di ogni parte d’Italia: liguri, come Goffredo Mameli (1827-1849) e Nino Bixio (1821-1873); emiliani, come Angelo Masina (1815-1849); lombardi, come Enrico (1827-1849) ed Emilio Dandolo (1830-1859), Luciano Manara (1825-1849), Emilio Morosini (1830-1849), e cento e cento altri. Fenomeno, del resto, che si verificò anche a Venezia, dove, tra gli altri difensori, vi erano i napoletani Guglielmo Pepe (1783-1855) e Carlo Poerio (1803-1867). Questo fenomeno va ricordato come una luminosa prova che le barriere particolaristiche e regionalistiche erano ormai superate; e che le varie parti d’Italia si stavano fondendo per lo sviluppo della nuova coscienza nazionale unitaria. L’appello del Papa fu raccolto da Austria, Francia, Spagna e Re di Napoli, ma furono le forze francesi, sbarcate a Civitavecchia il 25 aprile 1849, che, forti di diecimila soldati, affrontarono le difese romane. I transalpini ebbero, però, la brutta sorpresa di vedersi attaccati e ributtati verso Civatavecchia dalle forze della Repubblica Romana, grazie a un’audace mossa guidata da Garibaldi.
Dopo una breve tregua, il 3 giugno le forze francesi scatenarono l’attacco attorno a Porta San Pancrazio, sul Gianicolo. Per un mese i difensori sostennero una lotta eroica che costò tantissimo sangue italiano, e nella quale Garibaldi compì gesta epiche.
Il 1 luglio, però, la resistenza dovette cessare e i Francesi entrarono in città a ristabilire il dominio pontificio.
Mazzini riprendeva la via dell’esilio, e Garibaldi, che attraverso le gesta romane era assurto alla posizione di Eroe Nazionale, tentava una ritirata attraverso l’Italia, alla testa di alcune migliaia di seguaci, con il proposito di recarsi in aiuto di Venezia ancora in armi.
L’azione audace dovette, però, essere abbandonata di fronte alle soverchianti forze avversarie. Sciolto l’esercito nel territorio della Repubblica di San Marino, Garibaldi cercò di attuare il progetto con un ristretto gruppo di fedelissimi compagni.
Ne fu impedito dalle crociere austriache nell’alto Adriatico, e, mentre cercava scampo attraverso le paludi di Comacchio, ebbe il dolore di perdere l’eroica compagna Anita, che gli era stata sempre vicina in tutta la drammatica vicenda. Scampato a stento alla cattura, riuscì a raggiungere il territorio piemontese, dal quale, senza proteste, accettò l’espulsione.
Cominciava il suo secondo esilio (16 settembre 1849), durante il quale dovette affrontare una vita di stenti, tanto che fu costretto a fare l’operaio in una ditta di candele di New York, e poi a riprendere l’attività di marinaio mercantile in viaggi tra l’America e l’Australia. A Londra, nel febbraio del 1854, rivide Mazzini e conobbe Aleksandr Ivanovic Herzen (1812-1870)¸ ma a Genova e a Nizza fu conquistato dalla politica realistica del governo sardo: difatti, il suo ritorno in Italia, nel 1854, si accompagnò all’evoluzione delle sue idee politiche, così che si staccò dalle formule repubblicane di Mazzini e si avvicinò alla concezione monarchico-sabuada, partecipando alla Società Nazionale. Alla vigilia della Seconda Guerra d’Indipendenza, il 2 marzo 1859, s’incontrò con Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), Presidente del Consiglio, per accordarsi sull’organizzazione dei volontari; in quell’occasione conobbe il re, Vittorio Emanuele II (1820-1878).
Allo scoppio delle ostilità, assunse il comando dei “Cacciatori delle Alpi”, che operarono all’ala sinistra delle forze franco-piemontesi nella regione tra il Lago Maggiore e il Lago di Como. Le doti veramente straordinarie di coraggio, di capacità militare, di ardore patriottico, per cui Garibaldi esercitava una specie di fascino magnetico sulle folle, si accompagnava con abitudini di vita di una semplicità e di una rudezza quasi primitiva, che trovarono il loro ambiente ideale nell’isoletta selvaggia di Caprera, presso la punta settentrionale della Sardegna, acquistata dall’Eroe dopo il suo secondo ritorno in Italia, e diventata la sua dimora preferita. Dopo le delusioni dell’armistizio di Villafranca (12-7-1859), un grave colpo aveva turbato l’Eroe: quello per la cessione di Nizza alla Francia, cessione che, ufficialmente, lo rendeva straniero in quella Patria per la quale aveva tanto operato e rischiato.
Nelle condizioni di animo create da tale trauma, la possibilità di comandare la temeraria spedizione nel Sud dell’Italia gli apparve più che mai tentatrice, in quanto gli permetteva di dare sfogo, nell’impeto dell’azione e delle nuove lotte, con la vita costantemente in palio, alla piena di dolore e di esasperazione che gli gonfiava il cuore.
Con la spedizione dei Mille, Giuseppe Garibaldi assurse ancor più, e definitivamente, non solo alla posizione di Eroe Nazionale, ma anche internazionale. Per esigenze di spazio, termineremo il nostro omaggio all’Eroe dei due Mondi, con la prima parte proprio della sua impresa più straordinaria, al limite dell’incredibile.
Nel 1860, alla vigilia dello sbarco dei Mille a Marsala, il Regno delle Due Sicilie comprendeva la Sicilia (suddivisa nelle province di Val di Mazara, Val Demone e Val di Noto), la Calabria (suddivisa in Citeriore, 1° Ulteriore e 2° Ulteriore), la Basilicata, la Terra di Bari, la Terra di Otranto, la Capitanata (Foggia), il Principato Ulteriore (Avellino), il principato Citeriore (Salerno), la Terra di Lavoro (Caserta), l’area della capitale, Napoli, e, nella parte meridionale del Lazio, le province di Gaeta e di Sora.
Ma la spedizione dei “Cacciatori delle Alpi”, che saranno ribattezzati epicamente “I Mille”, effettuatasi sotto il comando di Garibaldi, aveva avuto, in Palermo, come precedenti preparatori, la sommossa popolare del 1820 (repressa in due mesi dalle truppe borboniche) e, soprattutto, come s’era anticipato, l’insurrezione del 12 gennaio 1848, quando i palermitani, sotto la guida di Rosolino Pilo (1820-1860) e di Giuseppe La Masa (1819-1881), sconfissero le truppe borboniche inviate da Napoli e il 2 febbraio poterono così costituire un “governo provvisorio siciliano”. Dopo il Fallimento della 1° Guerra d’Indipendenza, i palermitani furono gli ultimi a cedere le armi di fronte all’armata del generale Carlo Filangieri (1784-1867), il 15 maggio 1849.
Il progetto di liberare il Mezzogiorno d’Italia dall’occupazione straniera con un colpo di mano era nella tradizione mazziniana: ci avevano provato i fratelli Bandiera (Attilio ed Emilio, 1810 e 1819-1844) nel 1844 e Carlo Pisacane (1818-1857) nel 1857, entrambi culminati con la tragica morte degli arditi patrioti e dei loro compagni d’impresa.
E fu un altro mazziniano, Francesco Crispi (1818-1901), che già aveva partecipato all’insurrezione del 1848, ad agevolare quella dell’aprile del 1860, capeggiata dal patriota Francesco Riso (1820-1860), che vi sacrificherà la vita nel corso dell’assedio subito nel convento della Gancia.
Se la rivolta fu domata a Palermo, essa continuò a serpeggiare nelle campagne e tale moto popolare fu determinante al fine di preparare il terreno favorevole alla spedizione di Garibaldi, che non perse altro tempo e si fece consegnare, tramite Giuseppe La Farina (1815-1863), millecinquecento fucili dalla Società Nazionale (di cui lo stesso La Farina era stato uno dei fondatori).
Poi il Generale strinse accordi segreti con la società Rubattino, sicché, nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, i Mille, simulando un atto di pirateria, s’impadronirono, a Quarto, de “Il Piemonte” e “Il Lombardo”, due piroscafi della stessa società, e salparono.
Attraccarono all’arsenale di Talamone, il 7, per rifornirsi di altre armi, per poi proseguire fino a Marsala, dove sbarcarono l’11 maggio, con l’appoggio indiretto di alcuni mercantili inglesi che stavano operando azioni di carico e scarico nel porto, sfuggendo così, per sole poche ore, all’impatto con le navi borboniche.
Non appena il re Francesco II, a Napoli, seppe che il capo dei “filibustieri”, eludendo la vigilanza della crociera napoletana, era sbarcato a Marsala, rimase esterrefatto, imprecando contro la sua Marina, dalla quale diceva di essere stato tradito.
Ma la popolazione di Marsala, come di tutta la provincia di Palermo, era tutta per i garibaldini e il loro comandante, sicché esplose una grande gioia collettiva: tutti i portoni e i balconi erano pieni di donne che sventolavano i fazzoletti, mentre le vie era colme di due ali di folla che batteva le mani e gridava “Viva l’Italia”, “Viva Vittorio Emanuele” e, soprattutto, “Viva Garibaldi”; molti piangevano dalla commozione e dalla felicità. Durante il successivo percorso verso Salemi, si unì ai Mille il primo di tanti gruppi di insorti siciliani, che passarono alla storia col nome di “picciotti”, dato che per lo più erano giovani appena ventenni.
Quando i Mille giunsero a Salemi (il 14), Garibaldi proclamò la dittatura sull’isola in nome del re Vittorio Emanuele II e la leva in massa di tutti gli uomini dai diciassette ai cinquant’anni. Poi, il giorno dopo, ci fu la violentissima battaglia di Calatafimi.
A un certo punto, la battaglia sembrò persa per i Mille, tanto che lo stesso Nino Bixio (1821-1873) non credeva più nella possibilità di vincere. E allora si avvicinò a Garibaldi e gli disse: “Generale, temo che bisognerà ritirarsi”. “Che dite mai, Bixio?” rispose Garibaldi al suo vice “Qui si fa l’Italia o si muore”. E si slanciò per primo all’assalto gridando “Viva l’Italia!”, seguito da tutti i suoi con impeto inarrestabile e finalmente essi espugnarono la vetta del colle Piante di Romano e i superstiti delle truppe borboniche furono costretti a ritirarsi precipitosamente.
La mattina del 17 maggio, una colonna di soldati male in arnese, alcuni con rozze fasciature a tamponare le fresche ferite, lasciavano Calatafimi per raggiungere Palermo.
Erano, ovviamente, i Mille di Garibaldi, ai quali, ad Alcamo, si aggiunsero altre squadre di insorti, guidate da due frati, uno dei quali, Frate Pantaleo, portava una bandiera tricolore.
Il 19 attraversarono il Passo di Renda e la Conca d’Oro. Garibaldi prese gli opportuni accordi con Rosolino Pilo (1820-1860; già protagonista della rivoluzione palermitana del 1848 e di quella dell’aprile del 1860), che si attestò presso il monastero di Monte S. Martino con duecentocinquanta uomini, al fine di costringere la guarnigione borbonica di Monreale a ritirarsi.
La mattina del 21 maggio, invece, i borbonici scagliarono l’offensiva contro i volontari di Pilo; molte furono le vittime tra gli italiani e tra esse lo stesso Rosolino Pilo, con la morte del quale la causa della liberazione della Sicilia perse uno dei suoi più strenui difensori. Intanto, a capo dei ventunmila soldati delle truppe borboniche in forza a Palermo venne nominato il generale Ferdinando Lanza, quale Commissario alter ego del re Francesco II.
Lo stesso Garibaldi sfuggì a un accerchiamento comandato dal Lanza, con una ritirata strategica dal colle Cozzo di Castro. La sera del 24, il Generale chiamò Vincenzo Orsini (1817-1889), comandante dell’artiglieria, e lo mise al comando di una colonna che prese la via di Corleone al fine di sviare le forze borboniche e farsi inseguire da esse. In tal modo, passando per vie traverse, gole e dirupi, Garibaldi e i suoi uomini, ridottisi a settecentocinquanta, poterono piombare su Palermo e costringere il nemico alla resa, dopo tre giorni di feroci combattimenti (27-29 maggio). Garibaldi insediò il suo quartier generale nel Palazzo Pretorio o Palazzo del Municipio, ove costituì i nuovi Comitati della guerra, delle finanze, degli approvvigionamenti, degli interni, delle barricate, mentre Francesco Crispi, segretario di Stato, assumeva le redini politiche del Governo Dittatorio. Il 30 e il 31 maggio, Garibaldi, che fino ad allora era stato trattato da “filibustiere”, diventò d’un tratto “Eccellenza” nelle missive inviategli dal generale Ferdinando Lanza.
Il 6 giugno, infine, la resa ufficiale e il ritiro delle truppe borboniche, che s’imbarcarono sulle loro navi per abbandonare definitivamente Palermo e la Sicilia.
L’impresa dei Mille divenne subito leggendaria, proprio per l’esser ampiamente accertata e documentata in ognuna delle sue straordinarie tappe, suscitando ammirazione in tutta l’Europa, con una particolare eco, inevitabilmente, verso il coraggio, la sapienza tattica, la genialità militare, il grande amor di Patria, dimostrati da colui che aveva reso possibile un’operazione incredibile, già chiamato l’Eroe dei Due Mondi. E lo stesso Garibaldi, in merito alla presa di Palermo, scrisse personalmente: “Quando si videro capitolare quei ventimila soldati del dispotismo davanti a un pugno di cittadini votati al sacrificio e al martirio, sembrò proprio un portento”.
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