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CHIUSI I REPARTI DI PEDIATRIA NELLA ASL RM5

Aggiornamento: 5 mag 2021

OSPEDALI CHIUSI, SANITA' ALLO SFASCIO

Il coronavirus è stato ed è un catalizzatore di problemi che vengono da lontano.

Nel sistema pubblico, in due settori in particolare, le carenze del sistema si sono imposte, evidenziando la stratificazione di inefficienze, tagli e condotte poco lungimiranti: la scuola e il SSN. La prima si è trovata stretta tra la crisi endemica dei trasporti e l’emergenza sanitaria, tentando un equilibrismo impossibile con risorse esigue; il secondo è diventato eroico, non potendo essere ben finanziato. Ma facciamo un passo indietro.

Da subito, da marzo dello scorso anno, è apparso evidente il dato sconcertante della mancanza di posti in terapia intensiva, o meglio della sproporzione tra emergenza e possibilità di cura. Ma questa “mancanza”, il coronavirus, l’ha solo resa evidente nella sua tragicità. Qualche dato.

Nel periodo 2010-2019, come si legge nell’illuminante quarto rapporto GIMBE sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale, sono stati sottratti al SSN poco più di € 37 miliardi: circa € 25 miliardi nel quinquennio 2010-2015 per la sommatoria di varie manovre finanziarie e € 12,11 miliardi nel 2015-2019 per la “continua rideterminazione al ribasso dei livelli programmati di finanziamento”.

La sanità è stata considerata, negli ultimi vent’anni, un costo e non un investimento: nella salute pubblica, nella crescita economica, nel benessere dei cittadini. Le politiche sanitarie, le policies, sono state determinate e paralizzate dalla politica dei partiti, la politics, che ne ha perimetrato aree di intervento, competenze, possibilità di incidere sul tessuto sociale. I cittadini hanno assistito all’ “efficientamento” del sistema (quand’è che abbiamo cominciato a parlare così male?), alla chiusura di reparti, poi di interi ospedali. Nel Lazio, per rimanere nel nostro territorio, molti sono stati gli ospedali chiusi e non più riaperti: una drammatica tendenza, il numero decrescente degli istituti di cura, in atto da più di 20 anni, a leggere il corposo Annuario Statistico del Sistema Sanitario Nazionale, pubblicato nel 2019 o, ancora più indietro nel tempo, quello del 1998.

Il definanziamento lo ha pagato quindi il personale sanitario e, di riflesso, la cittadinanza, anche laddove le Regioni virtuose hanno tenuto i conti a posto con piani di rientro: il cortocircuito tra intermediazione assicurativo-finanziaria, gestione della finanza pubblica e programmazione sanitaria è esploso nei mesi successivi a marzo, in forme tragiche in alcune zone della penisola.

Nella non sempre leale collaborazione tra Stato e Regioni, si sono incuneati poi comportamenti paradossali: sindaci di focolai che, a fine febbraio, invitavano ad andare in centro; aperitivi sconsiderati sui Navigli; presidenti di regioni che hanno definito gli anziani non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese e, in tempi più recenti, piccoli presidenti di confindustrie regionali senza vergogna: “pazienza se qualcuno morirà” (sic).

Il punto, invece, è proprio questo: Enea non disarciona Anchise, deridendolo perché improduttivo, non pazienta, non molla Troia in fiamme dimenticando il padre anziano e poco utile. No, se lo carica sulle spalle, perché sa che non c’è futuro benedetto dagli dei se si dimentica chi si è e la salvaguardia dei propri affetti, delle proprie radici, della propria dignità di uomini.

Il criterio allora - e questo la pandemia lo ha reso drammaticamente urgente - è quello dell’health in all policies: la salute delle persone deve guidare tutte le politiche. Sanitarie, ovviamente, ma anche industriali, ambientali, sociali, economiche e fiscali.

Perché, se pure non scappiamo dalla nostra città in fiamme, non si deve essere costretti a sacrificare nessuno: né da definanziamenti, né da governance sfuggite di mano, né da decisori politici miopi. Perché il SSN, un “grande motore di giustizia”, nelle parole di Mattarella e nella pratica di milioni di cittadini, non debba essere più eroico ma, appunto, semplicemente ben finanziato.

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