Ti ricordi ancora Roma, cara Lou? Com'è nella tua memoria? Nella mia rimarranno un giorno solo le sue acque, queste limpide, stupende, mobili acque che vivono nelle sue piazze; e le sue scale, che sembrano modellate su acque cadenti, tanto stranamente un gradino scivola dall'altro come onda da onda; la festosità dei suoi giardini e la magnificenza delle grandi terrazze; e le sue notti, così lunghe, silenziose e colme di stelle”.
Rainer Maria Rilke, poeta e drammaturgo austriaco, durante il suo soggiorno romano (1902-03) così rammenta la città alla sua amica Lou. Roma si scopre al suo ospite in tutta la sua munifica magnificenza mai lesinata a nessun visitatore e, ancora men che mai, neanche al più frettoloso turista. Rilke, in quel soggiorno, è ospite della Villa Strohl-Fern, prossima a divenire, di lì a poco, sede di incontri culturali e laboratorio di sperimentazioni avanguardistiche di pittori, scultori, letterati, fotografi e musicisti italiani e stranieri (tra i tanti, Matilde Serao, Arturo Martini, Carlo Levi).
Nel 1927, dopo aver superato l'esame di ammissione all'Accademia di Belle Arti di via Ripetta, vi approda anche un giovane emiliano, Renato Marino Mazzacurati. In questa circostanza, presaga di sviluppi futuri, s'incontra con Scipione, Mafai e la Raphaёl.
E in detta Villa, nello studio n° 27 messogli a disposizione dall'amico Francesco Di Cocco, Mazzacurati realizza il suo primo significativo bozzetto, Rachele incontra Giacobbe, che, però, non buscherà il successo sperato, rifiutato – come accadrà – alla XVI Biennale di Venezia.
La delusione gli brucerà non poco. Torna donde era venuto, a Gualtieri, in Emilia.
Qui, con la costanza e la determinazione di chi sente formarsi dentro una forza che attende solo di trovare una sua via per manifestarsi e affermarsi, si cimenterà (inevitabile il riferimento allo scarno e pur magistrale segno pittorico di Morandi) in dipinti dai quali presto si allontanerà, per accostarsi ad una più congeniale forma d'arte: la scultura.
La “conversione” verso l'arte dello scalpello avverrà gradualmente, ma non da novizio: l'artista, artigianalmente dotato fin da giovanissimo (aveva operato come scalpellino presso la bottega d'un parente in Veneto), si appresta a vivacizzare la tecnica scultoria. Specialmente nel periodo 1934-35, nel suo “buen retiro” a Gualtieri, dove da tempo si era trasferito a seguito della sua famiglia, pone mano a quello che sarà il progetto della sua esistenza di artista e che lo porterà ad essere annoverato tra gli scultori italiani più insigni del secolo scorso.
La prima “nota caratteristica” che colpisce del suo lavoro è la naturale attitudine ad applicarsi con doviziosa cura e premura a forme espressive e stili diversi. È l'appunto che maggiormente gli rinfacciano i suoi critici: il suo “eclettismo”.
Sin dalla frequentazione della Scuola Romana – che, di fatto, vera “scuola” non fu mai, quanto piuttosto cenacolo e convivio di eccellenze artistiche e intellettuali (Mario Mafai, Antonietta Raphaël, Scipione, Leonardo Sinisgalli, Ungaretti, Enrico Falqui, Libero De Libero e, di seguito, Fausto Pirandello, Renato Guttuso, Renzo Vespignani, e ancora Marino Marini, Pericle Fazzini, Domenico Purificato, Henri Moore, Francis Bacon e altri) - Mazzacurati passa, infatti, a “scrutare da lontano” gli stili dapprima di Morandi e Carrà e, quindi, grazie anche a un soggiorno e a più di un viaggio a Parigi, quelli a lui più congeniali degli scultori Auguste Rodin e Aristide Maillol, senza trascurare di riservare un occhio di riguardo a Picasso, Matisse e Honoré Daumier.
L'accusa di artista eclettico lo lascia pressoché indifferente: «Qualche volta, sono stato accusato di eclettismo. È un'accusa che non mi spaventa: la cultura può essere eclettica, l’ignoranza mai. Ma voglio difendermi. Ognuno di noi ha una lunga esperienza storica ed è questa che determina il suo atteggiamento di fronte agli eventi […]. Ogni evento colpisce in noi certi valori profondi dell’esperienza storica, e da quei valori colpiti, per analogia o per contraddizione, sorgono le nostre reazioni […] può essere la zona dell’esperienza classica o di quella romantica, dei ricordi più arcaici o delle utopistiche previsioni […]. Con questo argomento spiego a me stesso il “mistero” di un Mazzacurati ora espressionista, ora realista, ora astratto» (in R.M. M. [catal., galleria La Nuova Pesa], Roma 1962).
E, a proposito di “esperienza storica” che può determinare un certo nostro atteggiamento di fronte agli eventi, occorre ricordare un episodio della guerra nel quale Mazzacurati e la moglie, mentre cercano di rientrare a Roma, sono sorpresi, ai primi giorni di ottobre 1943, alla stazione di Bologna, da un violento bombardamento aereo. Entrambi salvi, assistono a uno scioccante e terribile massacro.
L'artista, che pure aveva messo a segno le seguenti partecipazioni: collaborazione con Mario Mafai all'esecuzione della pittura murale Il Trionfo di Cesare per la casa della Gioventù italiana del littorio (1937), realizzazione della statua del Giocatore di tamburello per il Circolo del tennis al foro Mussolini (1938), realizzazione di un busto di Goethe per l'Accademia tedesca in occasione della visita di Hitler a Roma, partecipazione alla LIV Mostra della Galleria Romana organizzata dalla Confederazione fascista degli artisti (1942), Mazzacurati, dopo aver assistito a quel massacro, attenua, anzi, inverte “ecletticamente” la sua “adesione” politica e, fedele a quanto aveva dichiarato sul conto della sua versatile sensibilità, partecipa alla mostra collettiva “Arte contro la barbarie”, organizzata dal quotidiano L'Unità (23 agosto 1944). In quest'occasione l'artista espone dodici disegni sul tema Massacri. È la “svolta” platealmente manifesta della sua arte.
Sul tema della critica sociale, in realtà, si era già esercitato con la serie dei bronzetti degli Imperatori, della Strage degli Innocenti, delle Gerarchie. Sono tutte opere improntate alla critica dell'“esistente”: la fase declinante del regime è raffigurata, alla maniera di Daumier, in sculture (specie nei nudi) di fattezza grossolana, sgraziata, grassa, tronfia, bolsa, in stridente contrasto con l'atteggiamento solitamente fermo e superbo dei personaggi più in vista. Nell'accentuazione espressionistica della sua scultura si manifesta finalmente il talento, subito riconosciuto e celebrato, di un artista, geniale a suo modo, che, in quanto a critica sociale e a “pronunciamenti” antibellici, sa essere spietatamente aggressivo; mentre, al contrario, in tanti dei suoi Ritratti, si avvale di uno stile misurato, realistico, pressoché fisiognomico (Carla, Giorgio Pasquali, Giovinetta, Vincenzo Talarico, altri). Così, egli giovanissimo pittore, nel Ritratto di Scipione (1929) pare rapprendersi la quintessenza del ritratto ottocentesco.
La storia artistica di Mazzacurati continua, tuttavia, nella sua più nota produzione monumentale e in questa, dalla seconda metà degli anni Cinquanta, si cimenta in maniera quasi esclusiva.
A differenza di quanto fosse convinto Arturo Martini («Scultura lingua morta», 1945), Mazzacurati s'ingegna nel dimostrare la forza della scultura particolarmente destinata agli spazi pubblici e lo fa soprattutto con riferimento alla più recente storia della Resistenza. Realizza gli straordinari monumenti dedicati al ricordo e all'eroismo di quanti si sono immolati per la libertà dalla guerra e dalla dittatura: Monumenti alla Resistenza italiana (Parma, 1956), ai Martiri e alla Indipendenza del Libano (1960), alla Pace e ai Caduti di tutte le guerre (Sansepolcro, 1960), alla Resistenza (Mantova, 1967), alle Quattro giornate di Napoli (1969).
Ci si può interrogare intorno alla “retorica” del “monumento celebrativo” ed è buona ventura leggere a tal riguardo le parole dello stesso Mazzacurati: «Fondere le ragioni d'ordine estetico con quelle di un sentimento popolare: questo è stato l'impegno che ha dominato il mio lavoro quando cercavo una soluzione al monumento allo Scugnizzo napoletano delle Quattro Giornate. Ma non posso dire che sia stato facile ».
Resta, tuttavia, che l'artista emiliano, in un momento particolarmente cruciale della storia italiana, ha saputo fondere le ragioni dell'arte anche con quelle d'ordine urbanistico di arredo e decoro delle città.
Nella multiforme attività di Mazzacurati e, comunque, dentro il suo malcelato eclettismo, vanno segnalate opere minori, nelle quali l'artista, con eguale impegno e dedizione, nel rispetto dei valori ideali da sempre coltivati, profonde comunque a piene mani i frutti, modernamente concepiti, della sua arte. È il caso dei lavori in mosaico, attività nella quale si distingue più volte, fin da quando, per difficoltà contingenti, si trasferisce in una frazione di Civitavecchia, ad Aurelia (1936).
È il periodo in cui è chiamato a Villa Giulia ove, con la stessa tecnica, si cimenta in scene di caccia, con cavalli e cavalieri all'inseguimento di una tigre braccata. Sempre in mosaico tra il 1944 e il 1946, realizza cartoni per mosaici cooperando con il laboratorio di Enrico Galassi.
L'artista torna al mosaico allorché – mentre lavora al Monumento alle Quattro giornate di Napoli (1964-66) – riceve l'incarico di realizzare la pala d'altare per la chiesa di Colleferro, consacrata nel 1936 e dedicata a Santa Barbara, patrona della città.
Il lavoro colleferino s'inserisce magnificamente nell'“aria industriale” che, se non proprio salubre, connota a ragione la cittadina laziale: lo indicano nel mosaico i fumanti stabilimenti industriali, che, a modo di metafisico paesaggio novecentesco (ove non si percepiscono abitazioni né presenze umane), lambiscono la base del mosaico. Al centro di questo fondale, un orologio segna un'ora (le 8 meno 5: quella dell'esplosione di 10 tonnellate di tritolo, che funestò la cittadina il 29 gennaio 1938).
L'opera in sé integra e rappresenta un'icona doppiamente significativa: quella di immagine sacra e quella di sapore “monumentale” alla maniera tipica in Mazzacurati, perché contrassegnata dall'imprimatur del “memento”.
Ciò che, di fronte al mosaico, maggiormente colpisce l'osservatore è la forte impressione di un'esplosione in atto, dinamicamente sostenuta e rafforzata dal supporto solo vagamente evocativo della croce cristiana. La Santa appare come spinta verso chi la osserva, né più né meno come una novella Nike, tedofora di fede, di vittoria e di pace, vittoriosa sulla guerra e protettrice di quanti sono esposti, specialmente in luoghi chiusi, a rischi e pericoli improvvisi.
Il pregio più notevole dell'opera appare tuttavia nelle vesti che avvolgono la giovane martire: il vento impetuoso dell'esplosione, che non spegne la fiamma della fiaccola che ella solleva con la mano destra, la investe in pieno gonfiando il panneggio in strepitosi svolazzi colorati. L'effetto che ne vien fuori, oltre ad accendere un forte dinamismo, produce nelle pieghe del vestiario un vibrante e virtuosistico gioco chiaroscurale.
La figura di Barbara salta fuori miracolosamente da un'esplosione così come tante volte era fuggita dalla torre che in vita l'aveva tenuta prigioniera. Non è la Santa sublimemente raffigurata in grazia e delizia da Raffaello a destra della sua Madonna Sistina; non è neppure la Santa che Francisco Goya immortala nella sacra sontuosità della sua immagine doviziosamente connotata dei simboli del suo martirio.
La Santa Barbara di Colleferro, scarna nei simboli se non in quello più tradizionalmente riconoscibile (il fuoco dell'esplosione che dovrebbe richiamare il fulmine omicida del padre), si propone allora come immagine fin troppo caricata di sentimento moderno.
E non pare che vi aleggi la sacralità capace di catturare la devozione dei fedeli quanto piuttosto una forte esortazione a temere non tanto i fulmini del cielo quanto le minacce della terra. Questi rischi, di volta in volta, prendono nome di guerra, d'ingiustizia, di minaccia alla libertà di pensiero, di minaccia alla libertà religiosa (come lo fu per santa Barbara). E questo non è solo un lascito ma è anche un comandamento.
E va così che un artista, Renato Marino Mazzacurati, notoriamente poco incline e poco propenso alle speculazioni spirituali e alle produzioni d'arte sacra, finisca col realizzare un'opera d'alto spessore non solo religioso ma anche, a suo modo, “filosofico” o, per dir meglio “pedagogico”: non un “hortus conclusus” nella dimensione del sacro, ma una “tabula magna” ove si può anche leggere un atto di fede nella “ragione” capace di prevenire e scongiurare, come un'interiore santa Barbara, il “fuoco” delle ostilità e le “esplosioni” delle guerre.
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