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Immagine del redattoreSilvano Moffa

Le tre turbolenze sul governo

Ci sono almeno tre questioni che rischiano di creare turbolenze sul governo. Immigrazione, giustizia e fisco.

Mario Draghi

Non sono le sole, ovviamente. Ma ci sembrano quelle che, più di altre, possono creare problemi a Mario Draghi. Fin qui, il premier ha mostrato fermezza e abilità nel giostrare tra i troppi galli che costituiscono la variopinta e larga maggioranza nata dalla duplice emergenza pandemica e politica. Ha impresso una grande accelerazione ai vaccini e costretto i partiti ad un ruolo più defilato. Il fatto che questi ultimi si affannino a cercare argomenti più o meno identitari per marcare una presenza, ci pare segno di sopravvivenza piuttosto che di effettiva volontà di potenza, ricerca di un posizionamento post Covid e post Draghi, in vista delle future elezioni politiche (non si sa quando) e delle imminenti consultazioni amministrative nelle grandi città e in molti comuni minori.

Se però, finora, i leader hanno giocato la loro partita rincorrendosi sui campi sdrucciolevoli del posizionamento identitario, niente esclude che il gioco si faccia più duro quando, per assicurare al Paese le riforme essenziali richieste dall’Europa, vero e proprio passe-partout per ottenere i fondi del Recovery plan, i temi da affrontare saranno quelli indicati all’inizio. Procediamo con ordine. Sull’immigrazione, Draghi non si è fatto sorprendere. E’ andato in Europa invocando la necessità di un cambio di passo nel governare un fenomeno complesso che non accenna a diminuire e nello spronare la Ue ad assumere un ruolo più incisivo in Africa.

Rispetto a due anni fa gli sbarchi sono decuplicati. Urge un “patto per le migrazioni” tra i partner europei che, però, sulla ridefinizione delle quote di redistribuzione hanno mostrato fin qui opinioni differenti.

La divisione tra i Paesi del Nord e quelli del Mediterraneo è netta. Né accenna a cambiare la posizione di Polonia e Ungheria. Il veto del blocco di Visegrad ha impedito fino a oggi l’applicazione di qualsiasi tipo di ricollocamento forzoso di immigrati. Rimuovere questi blocchi non sarà facile. Poi, c’è il problema dei richiedenti asilo, una porzione di gran lunga inferiore a quella dei cosiddetti migranti economici, che sono l’80% di quanti arrivano in Italia. Insomma, sul tavolo del prossimo Consiglio europeo oltre alla riforma del trattato di Dublino ci sarà anche la creazione di una Agenzia europea per l’Asilo. In quella sede, per portare a casa un risultato soddisfacente, Draghi dovrà far valere tutta la sua autorevolezza e capacità di mediazione.

Resta il fatto che le forze politiche che lo sostengono dovrebbero agevolarne il lavoro di non facile tessitura. In che modo? Evitando di esporlo a battibecchi inconcludenti e divisivi che non giovano alla causa. Non è pensabile che tra le due opzioni estreme, “aprire tutto” e “fermare tutto”, non ci sia una terza soluzione possibile. Se l’è chiesto recentemente il direttore de Il Foglio mettendo l’accento su alcuni punti fondamentali: corridoi umanitari per i rifugiati, rafforzamento di rimpatri volontari ancor prima che i migranti si avventurino in mare, un decreto flussi più ampio di quello attuale (lo ottenne Roberto Maroni a suo tempo; perché non dovremmo ottenerlo oggi che il grosso dell’immigrazione, in Italia, arriva dalla Tunisia e dal Bangladesh, ossia da paesi che non sono in guerra?), combattere con tutti i mezzi possibili i trafficanti di esseri umani, rafforzando la guardia costiera libica e chiudendo i centri di accoglienza illegali. Se i partiti accantonassero le sterili dispute bizantine e ponessero attenzione a questi argomenti trovando un minimo di intesa comune, l’Italia mostrerebbe all’Europa ben altra forza e incisività.

L’altro tema divisivo è quello della giustizia. Nell’anniversario della strage di Capaci, dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta, il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha redarguito la magistratura, ha condannato le liti che ne “minano il prestigio” e ha chiesto di “far luce su ombre e sospetti”. I casi corruttivi denunciati dal libro di Palamara, la storia della presunta loggia massonica “Ungheria”, le vicende del corvo e i ripetuti conflitti nella Procura di Milano sono fatti che hanno letteralmente fatto saltare il coperchio di un sistema marcio e corrotto. Un sistema che è all’opposto della organizzazione della giustizia che dovrebbe avere un Paese civile e democratico. In tale disastro, consola il fatto che ci siano giudici non iscritti alle correnti, tanti magistrati che fanno il loro dovere con solerzia e abnegazione, in silenzio, senza smanie di protagonismo. Oltre ai cittadini, sono anche questi encomiabili servitori dello Stato vittime della malagiustizia e di quel sistema che si perpetua in Italia da diversi lustri. Come uscirne? Mattarella dall’aula del supercarcere dell’Ucciardone ha invocato le riforme. “Gli strumenti non mancano”, ha detto. Perfetto. Ma siamo sicuri che sugli strumenti da adottare con urgente necessità siano tutti d’accordo? Che la disputa tra garantisti e giustizialisti possa essere superata nel nome di una riforma equilibrata e condivisa? Che non si alzino, come è sempre accaduto in passato, quando il Parlamento ha deciso di toccare un tasto così sensibile, i lai dell’associazione dei magistrati? Le correnti, non dimentichiamolo, sono ancora lì, vive e vegete, tutt’altro che disarmate. In più, nei partititi, le distanze sono abissali proprio in materia di garanzie.

E spesso si dimentica che siamo un Paese sfibrato da lunghi, estenuanti processi costruiti spesso sul nulla e, inevitabilmente, destinati a estinguersi in una bolla di sapone. Per non parlare del record di detenuti in attesa di giudizio. Allora, che fare? Il ricordo di Falcone indica la rotta. Nelle sue ultime uscite - quasi un lascito testamentario - il giudice ripeteva spesso che il ruolo dei Pubblici Ministeri doveva cambiare e spiegava come apparisse ormai ineludibile la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante. Bene, se a queste due riforme essenziali si aggiungesse la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, eliminando il correntismo e affidando la composizione dei suoi membri al sorteggio tra giudici in possesso di adeguati requisiti e di comprovata esperienza, il cerchio sarebbe chiuso. Avremmo finalmente messo una pietra su una delle nostre più gravi anomalie: quella di un Paese dove la politica ha lasciato un vuoto e la magistratura ne ha occupato un altro, che non le appartiene. Non nutriamo dubbi sulla determinazione e competenza del Guardasigilli Marta Maria Cattabia. La ex presidente della Consulta sta lavorando alla riforma del processo civile e della giustizia penale. A preoccupare, ancora una volta, è l’atteggiamento dei partiti. Molti, troppi governi sono inciampati nella riforma della Giustizia. D’altro canto, ritenere l’argomento un tabù e non provare a mettere le cose a posto, ora che il coperchio del malaffare è saltato, può soltanto peggiorare la situazione.

Infine, il Fisco. Sulle tasche dei contribuenti incombe una fiscalità pesante, iniqua, sgangherata. Siamo il Paese con un tasso di evasione ed elusione molto alto. Da tempo, l’Europa ci chiede una riforma fiscale. Ma la chiedono, soprattutto, i cittadini, le famiglie e le imprese italiane sommersi da tasse e balzelli, mentre ci sono multinazionali, come Amazon, Google, Facebook, Microsoft che si tengono alla larga dall’Erario e non versano un centesimo, pur incassando mirabolanti guadagni.

Bisognerebbe partire da qui, imponendo regole stringenti a livello europeo e una base di fiscalità comune, al fine di evitare squilibri, diseconomie e arginare i paradisi fiscali sparsi qua e là in alcune enclave continentali, come Olanda e Lussemburgo. Invece, mentre per la Flax Tax Salvini attende tempi migliori, il segretario del Pd, Letta, propone di tassare l’eredità sui patrimoni oltre i 5 milioni di euro. L’idea di offrire un piccolo capitale ai giovani, facendo leva su una tassa del genere, non è di per sé sbagliata. E non è neppure una novità. L’imposta di successione si paga in molti paesi europei. In Francia le aliquote partono dal 5% per arrivare al 45% (oltre 1,8 milioni di euro). In Spagna si va da zero al 34%, in Germania si toccano punte del 50%. Da noi, in Italia, per la tassa di successione in linea retta (coniugi, figli, nipoti o genitori) l’aliquota è del 4%, con una franchigia di un milione di euro, e può variare fino all’8% per valori superiori. Portando al 20% la tassa di successione sulle eredità superiori ai 5 milioni si recupererebbero circa 2,8 miliardi. In tal modo, secondo la proposta del Pd, ogni diciottenne avrebbe in dote un gruzzolo di 10 mila euro. Ripetiamo: la proposta non ci sembra pregiudizialmente sbagliata.

La disponibilità di un capitale, anche piccolo, che permetta ai giovani di mettere la propria vita su dei binari che possano aprire loro orizzonti futuri, chi non la vorrebbe? Francamente, ci parrebbe più produttiva una risorsa agganciata ad un progetto concreto e meno aleatorio. Ma il punto, ora, non è questo. Il punto è che una seria e organica riforma fiscale deve essere complessiva, erga omnes. Deve possedere misure efficaci e benefici ben calibrati. Deve essere equa, giusta.

Deve offrire ai contribuenti un nuovo patto con lo Stato, basato su reciproca fiducia e ritrovato senso comunitario. Altrimenti, come ricordava con una punta di ironia John Maynard Keynes: “Sfuggire alle tasse è l’unica impresa intellettuale che offra ancora un premio”.

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