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Ritorno all'etica per salvare noi e il pianeta

Come sarà l’Italia che verrà? Che cosa ci porterà il nuovo anno?

Sono le classiche domande di Capodanno, l’interrogativo che rimbalza nei giornali, nelle radio, nelle reti televisive come un mantra, un ritornello, un postulato. Come se fosse facile prevedere il futuro.

Materia per cartomanti, astrologhi, maghi, visionari.

Eppure, intorno al quesito si affilano intelligenze, curiosità, aneddoti, luoghi comuni, analisi a tutto tondo, vertiginose scorribande del pensiero rivolto al dopo, a quel che sarà o che potrebbe accadere.

Poi, come sempre, passato Capodanno, la girandola rallenta. La quotidianità ci assorbe nel suo travolgente ritmo.

I desideri sfumano. Al massimo vengono accantonati, in attesa di tempi migliori. In questo movimento ciclico si condensa la vita di ognuno.

E nella rassegnazione si spegne l’entusiasmo, vengono meno gli stimoli. Incombe la routine.

La malinconia che ci avvolge, fotografata dal Censis nel suo ultimo Rapporto, scaturisce proprio da qui: da questa indolenza sistemica, da un asfissiante nullismo, dalla percezione della inanità di ogni sforzo che provi a rimuove le catene che ci legano, le incrostazioni, i vincoli, le limitazioni che imprigionano la vitalità, l’esuberanza, la creatività e l’immaginazione: i veri motori dell’animo umano.

Ci sentiamo compressi, esausti. Come un Sisifo del mondo moderno (o post- moderno) proviamo a portare sulle spalle lo stesso macigno che poi vediamo rotolare a valle, una volta raggiunta la cima.

L’immagine, lo ammetto, è desolante. Ma niente è più desolante di far finta di non vedere, nascondere la realtà che abbiamo davanti. Anzi, è proprio la consapevolezza di questo status della coscienza collettiva e dei sentimenti prevalenti che deve farci riflettere.

Se non afferriamo le ragioni del malessere, se osserviamo con refrattario disinteresse quel che ci circonda senza il coraggio di prendere di petto quel che definirei “rassegnazionismo”, al fine di evidenziare la natura sistemica della rassegnazione, il suo trasformarsi in un moto complessivo e pervasivo degli umori collettivi, non arriveremo mai a spezzare il nodo gordiano che imbriglia l’animo di un popolo e di una Nazione. Quel che ne mina l’intraprendenza, la voglia di riscatto, l’azione.

Prima di tutto, dobbiamo accettare che malinconia e rassegnazione sono fattori umani. Moti intimi. Fanno parte della nostra essenza psichica. Si annidano nell’animo e spuntano come fiume carsico a colorare il nostro umore.

La malinconia porta con sé tristezza, amarezza, nostalgia del tempo che fu. Nella malinconia l’Io si chiude, si arrovella, si lacera. Una coltre oscura invade l’animo e lo pervade. La malinconia soffoca il respiro. Se poi diventa fattore comune, la malinconia sfocia nell’inquietudine collettiva, nella delusione generale. La Pandemia del Covid, con i restringimenti, le limitazioni della libertà, il lavoro da casa, lo svuotamento delle città, le mascherine, la solitudine degli anziani e dei malati, le impressionanti perdite umane, il pianto a distanza di chi non ha potuto recare l’ultimo saluto ad un padre, una madre, un nonno e tanto altro ancora, ha segnato indelebilmente l’animo umano.

Quel maledetto Covid, con il quale ci dicono dobbiamo imparare a convivere, ci ha trasformato antropologicamente, ha cambiato il nostro modello di vita, ci ha resi più incerti e insicuri, più distaccati e isolati.

E in questa separazione dall’altro (anche da chi è più vicino e caro), in questo innaturale distacco consumiamo un tratto importante della nostra malinconia collettiva.

Poi, è arrivata la guerra nel cuore dell’Europa, ad aggravare il nostro stato d’animo. La guerra con i suoi orrori e stermini. Giovani vite spezzate. Torture. Stupri. Genocidi.

La voce inascoltata del Papa che implora la pace e supplica di deporre le armi. La notte della storia scende cupa sul mondo. Lo avvolge e stravolge.

Si addensano, si moltiplicano i conflitti. A febbraio, sarà trascorso un anno dalla invasione Russa in Ucraina.

In Iran, donne coraggiose, se tolgono il velo, vengono uccise nel nome di un regime barbaro e teocratico. Venti di guerra soffiano tra Serbia e Kossovo, tra le due Coree. A Taiwan.

Dalla Siria allo Yemen la guerra ad oltranza è ormai endemica.

Oltre un decennio di massacri, violenze, assassinii di bambini. Una carneficina. Distruzione ovunque. Gente che fugge. Si calcola che sulla Terra oggi circolino circa 37 milioni di bambini sfollati. Per non parlare del martirio dei cristiani in Nigeria, nel Maghreb, in Medio Oriente, nel Pakistan. Nel mondo globalizzato assistiamo alla globalizzazione dei conflitti, delle diseguaglianze, dell’odio. Homo homini lupus.

Di fronte a questo panorama di disperazione e distruzione restiamo attoniti, sgomenti. Le immagini corrono veloci dinanzi ai nostri occhi interconnessi nella rete globale. Ma la loro velocità è pari alla velocità della nostra assuefazione al male che ci inonda. Inghiottiti dal tubo catodico dell’informazione e maramaldeggiati dai social, non abbiamo più fiato né forza per reagire. L’antidoto alla frustrazione pensiamo di scovarlo rifugiandoci nell’egoismo.

Nella chiusura nel proprio ambito, e nei propri interessi, dove prevale, illusoria, la risposta ai propri bisogni. Intanto, nel mondo si continua a morire di fame. Si allarga il divario tra paesi ricchi e paesi poveri. Dalla globalizzazione e dalla sua crisi, dai conflitti e dalle guerre, dalla crisi demografica del mondo Occidentale e dalla disperazione dei profughi e dei migranti economici sale l’onda lunga di un cambiamento epocale, per certi versi anch’esso antropologico, mentre gli Stati flettono e i nuovi Imperi dettano i modelli del post-capitalismo e della nuova geopolitica.

Dalla Cina all’India, dagli Usa alla Russia: i grandi competitor, gli attori del nuovo millennio si contendono spazi, ricchezze, nuove tecnologie, minerali rari, aree di influenza.

E l’Europa? Il Vecchio Continente, culla di civiltà, langue. Vaso di coccio tra vasi di ferro. Le democrazie sono anch’esse in crisi. E la colpa non è, come qualcuno sostiene, dei populismi. La crisi ha altre cause.

Si spiega con la mancanza di un quid di cultura e di genialità nel calibrarne lo sviluppo orientando e governando i processi che impetuosi sono piombati in mezzo a noi con la rivoluzione tecnologica e telematica, con l’irrompere dell’intelligenza artificiale, con l’affermarsi di quel mondo “liquido” che ha finito con lo scompaginare intere categorie del sociale, modificato ritmi di vita e di lavoro. Può apparire un paradosso, ma non lo è: il benessere diffuso ha messo in crisi il modello democratico. Nella sagra dell’appagamento generalizzato delle aspettative coltivate quando l’economia produttiva marciava spedita, si è perso di vista il contesto di fondo che quel benessere garantiva. Poi è arrivata la finanza, con la sua forza e le sue follie, a condizionare il mercato e ad illudere che potesse durare all’infinito un mercato senza regole.

Nella crisi della democrazia, almeno da noi (ma non solo da noi), va computata l’eclissi dei partiti. Erano, i partiti, solide agenzie di senso, luogo di confronto, di dibattito, di selezione di classe dirigente, di orientamento e di progettualità. Giuseppe De Rita ha recentemente ricordato che se si guarda al panorama attuale, si vede che esso da anni è pieno di proposte politiche costruite sulle persone.

La personalizzazione della politica ha svuotato e annullato i partiti, ha creato “circuiti di fedeltà personale” e “coalizioni occasionali senza intima coesione”, una sorta di “spettacolare ronda del piacere dove vince la vitalità e/o la furbizia spregiudicata dei soggetti più vitali”. Ma, sottolinea De Rita: “Con questa vitalità non si va molto lontano e si comincia a sentire il bisogno di avere strutture organizzate capaci di gestire la crescente ambiguità dei problemi sociopolitici e dell’opinione pubblica”. In fondo, la decrescente e ormai quasi maggioritaria non partecipazione al voto dell’elettorato non è forse il sintomo più evidente delle crisi della democrazia e della rappresentanza, quest’ultima letteralmente castrata da una legge elettorale farlocca?

Ecco, in questi orizzonti terribilmente inquieti, nella dissacrazione ripetuta di principi, valori, costumi che pure garantivano solidità di pensiero e rendevano virtuosi i comportamenti individuali e quelli collettivi, per risalire la china ci pare essenziale comporre nuovi inventari, definire nuovi paradigmi, alimentare nuove idee, inedite speculazioni filosofiche e sociali, altri modelli per l’economia e la finanza.

Non è facile, certo. Né è scontato che accada. C’è chi come Philippe Aghion, con un taglio fin troppo materialista, fa affidamento su una “distruzione creatrice e gentile”, su una “bufera delle innovazioni” che consenta al capitalismo di reinventarsi e chi, come Vito Mancuso, leggendo il mondo dominato dal consumismo sfrenato, dall’incertezza del futuro, dalle guerre, dalla immoralità dilagante, dalla distruzione dell’ambiente e dalla rivolta della natura, punta sul ritorno all’etica.

Il che significa superare ogni forma di relativismo e di egoismo, trascendere l’interesse personale e rifondare l’agire umano sulla coscienza del bene e del male. Come? Facendo leva su sé stessi. Sulla forza dello spirito e l’ansia di equilibrio e di armonia di cui tutti dovremmo far tesoro.


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