La comunicazione istituzionale al tempo dei social
L’analisi della comunicazione politica, o impolitica per certi versi, è argomento ricorrente e certo non nuovo.
Interessante leggere e decostruire certe narrazioni a livello locale, poiché la tendenza - visibile, netta, incontrastata - è quella a una replicazione di frasi, costumi, atteggiamenti che, decontestualizzati, raccontano molto del poco che c’è.
Una giunta comunale, regionale, la dirigenza di una scuola, la guida di un’azienda, in una parola la gestione di un’organizzazione complessa, ha bisogno di una visione (va di moda vision, ma noi qui nella valle del Sacco preferiamo l’italiano): progettualità, visione d’insieme, direzione.
Una lettura anche sbrigativa dei social dei nostri amministratori rimanda l’immagine di una prassi che esalta il quotidiano, l’ordinaria amministrazione, la semplice manutenzione delle strade: toni epici, di chi sta combattendo il virus a mani nude, di chi si alza presto, “prestissimo”, per vigilare che venga attappata una buca, di chi è “operativo”, sempre, con aria pensosa da padre della patria.
Si è “sul posto”, la foto opportunity lo testimonia, la presenza è essa stessa fare se c’è un fotografo solerte che rende eterno un momento normale, “normalissimo”, della vita di un amministratore.
Allora l’inaugurazione è essa stessa evento, non importa cosa si inauguri, se davvero la solennità è adeguata al contesto: fasce tricolori a profusione, iniziare per iniziare, tagliare nastri anche di attività private, come un concorrente qualunque del GF.
All’esaltazione dell’ordinario e alla ossessione inaugurativa si somma poi l’aspetto più interessante: quando proprio non c’è niente da raccontare, si butta lì una citazione, fuori contesto, che fa tanto cultura per tutti, caminetto culturale, “ho da fare ma sono colto”.
E così, a casaccio, San Tommaso e Dostoevskij, incolpevoli cornici di tinelli agghindati all’uopo.
E sotto, piogge di commenti estasiati da cotanto spessore, cuoricini, o contro-citazioni ancora più a casaccio: Trilussa o un altro, che importa.
La disintermediazione mostra allora i suoi limiti, perché a forza di togliere mediatori (culturali, rappresentativi, sociali) non rimane niente da mediare, se non un vuoto cosmico, ma ben confezionato.
Si provi allora a sfrondare questi contenitori di inaugurazioni, manutenzione ordinaria e finta cultura: rimane il vuoto appunto, quello che governa le nostre città.
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