A cura di Silvano Moffa
Jeremy Rifkin, uno fra i più popolari pensatori sociali della nostra epoca, autore di best seller tradotti in più di trenta lingue, torna nelle librerie con un altro poderoso saggio destinato a lasciare il segno.
Nel 2019, con La Civiltà dell’Empatia analizzò la corsa verso la coscienza globale del mondo in crisi, promuovendo una nuova interpretazione della natura umana. Al centro della storia umana Rifkin poneva la paradossale relazione che intercorre tra empatia ed entropia. In una società complessa come la nostra, che si snoda a crescenti ritmi energetici e nuove rivoluzioni nel campo delle comunicazioni, le civiltà tecnologicamente più avanzate hanno mescolato popoli diversi, aumentando la sensibilità empatica e facendo espandere la coscienza umana.
Ma questa crescente complessità ha comportato un enorme impiego di risorse umane, che ora rischiano di esaurirsi. Per evitare il disastro che è dietro l’angolo, secondo Rifkin occorre accedere alla politica della biosfera, ossia all’idea che la terra è come un organismo vivente, fatta di relazioni interdipendenti, e che ciascuno di noi può sopravvivere solo mettendosi al servizio della più vasta comunità di cui è parte. Una tesi suggestiva, certamente. Che però lasciava aperto l’interrogativo di fondo con cui Rifkin chiudeva la sua accattivante speculazione intellettuale: ”Riusciremo ad acquisire una coscienza biosferica e un’empatia globale in tempo utile per evitare il collasso planetario?”
Con questo nuovo libro, il pensatore supera l’interrogativo del precedente volume e traccia una rotta.
“I virus continuano ad arrivare. Il clima continua a riscaldarsi – è l’incipit che introduce le sue articolate e scientifiche riflessioni – E la Terra si sta rinaturalizzando. Abbiamo a lungo pensato di poter costringere il mondo naturale imprevedibile. La nostra specie non ha una valida strategia per il caos che si sta dispiegando intorno a noi”. Rifkin ci spinge a rivedere antichi e consolidati paradigmi del nostro pensiero.
A suo parere è ormai al tramonto l’Età del Progresso e ci invita ad un radicale ripensamento della concezione del tempo e dello spazio.
A dispetto della presunzione dell’uomo dominatore del mondo e di ogni altra specie, ci stiamo accorgendo che siamo più limitati e meno importanti nel quadro più ampio della vita umana. Stiamo prendendo coscienza della dura realtà. Avvertiamo il peso della responsabilità “dell’orrenda carneficina che va diffondendosi su tutta la Terra: le inondazioni, le siccità, gli incendi incontrollati e gli uragani che stanno seminando il caos e minando economie ed ecosistemi di ogni parte del mondo”.
Le forze planetarie si stanno rivelando più forti di noi e difficili da controllare. Di qui la necessità di “ripensare ogni aspetto della nostra vita”. In che modo? Imboccando decisamente la strada della “resilienza”: una parola magica, ormai entrata nel linguaggio di ogni giorno, ma che va definita nei contorni e nei contenuti. Per Rifkin il passaggio dall’Età del Progresso all’Età della Resilienza è la chiave stessa della nostra sopravvivenza di essere umani, il percorso ineluttabile per adattarsi ai cambiamenti in atto a livello planetario. “Se l’Età del Progresso marciava al passo con l’efficienza – spiega – la coreografia temporale dell’Età della Resilienza procede a grandi passi con l’adattività. La transizione temporale dall’efficienza all’adattività è il biglietto di rientro che porta la nostra specie dalla rottura con il mondo naturale e dal suo sfruttamento al rimpatrio tra la moltitudine di forze ambientali che animano la Terra, segnando un riposizionamento dell’attività umana su un pianeta sempre più imprevedibile”.
Ovviamente, Rifkin, da indagatore dei fenomeni complessi, non si limita ad elaborare teorie più o meno immaginifiche, né fonda il suo pensiero sulla semplice percezione degli avvenimenti e dei cambiamenti ambientali. La sua analisi è corroborata da numerosi studi. C’è tutta una generazione di fisici, chimici e biologi alla frontiera della ricerca scientifica, che stanno portando alla luce una storia diversa in merito alla natura della natura umana e, nel contempo, mettono in discussione la fede nella nostra individualità autonoma. Rifkin ripercorre questi studi e le relative intuizioni nella convinzione che “la nostra specie è la grande viandante del mondo, alla ricerca di qualcosa che è più della sussistenza quotidiana”. “Qualcosa di più profondo e più inquieto si agita dentro di noi: un sentimento che nessun’altra creatura possiede. Che ce ne rendiamo conto o no, siamo all’incessante ricerca dl significato della nostra vita. E’ questo che ci sospinge. Ma in qualche punto del nostro viaggio abbiamo smarrito la strada”.
Secondo Rifkin è giunto ora il tempo di recuperare terreno, facendo leva su quello che gli antropologici ammettono essere la principale peculiarità della nostra specie: la qualità adattativa.
La questione è se ci serviremo di questa peculiare caratteristica “per riassimilarci nel gregge della natura ovunque questo ci conduca, con un senso di umiltà, con consapevolezza e con sana riflessione critica che consentano alla nostra specie e alla nostra famiglia biologica estesa di tornare a prosperare”. La grande svolta auspicata da Jeremy Rifkin sta nel superare l’idea di adattare la natura alla nostra specie per riadattare la nostra specie alla natura. Quel che sembra un gioco di parole richiede in effetti un notevole salto di qualità del pensiero, prima ancora dei comportamenti e dell’agire umano. Implica l’abbandono della tradizionale impostazione baconiana dell’indagine scientifica, “con la sua enfasi sull’idea di strappare alla natura i suoi segreti e di vedere la Terra come una risorsa e una merce destinate al consumo esclusivo da parte della nostra specie”.
“In sua vece, dovremmo impadronirci di un paradigma scientifico radicalmente nuovo: ciò che una nuova generazione di scienziati chiama pensiero in termini di ‘sistemi socio-ecologici adattivi complessi’”.
Questo nuovo modo di fare scienza, spiega ancora Rifkin, considera la natura come una “fonte di vita” anziché come una “risorsa” e percepisce la Terra come un sistema complesso che si auto-organizza ed evolve autonomamente, la cui traiettoria è in ultima analisi inconoscibile in anticipo, e che quindi richiede una scienza della previsione e dell’adattamento vigile piuttosto che dell’appropriazione forzata. Resilienza, quindi, alla luce di quel che ci insegna la natura con i suoi cambiamenti e sconvolgimenti, non è una forma di reazione vigorosa sufficiente a tornare nello stato di equilibrio originario, al punto di partenza.
La resilienza non significa mai ristabilire esattamente lo status quo. “Il trascorrere del tempo e degli eventi cambia sempre gli schemi, i processi e i rapporti, indipendentemente da quanto sia limitata l’impronta lasciata nella natura come nella società. La resilienza – ecco un punto di chiarezza fissato da Rifkin – non dovrebbe mai essere concepita come “un modo di essere” nel mondo, bensì come un modo di agire nel mondo.
Ciò vale nella natura, come nella società e nell’economia. Il filo sottile che lega fra loro questi sistemi emerge dalla lettura attenta e originale dei modelli di vita alimentati dal progresso, dalle teorie scientifiche ed economiche, dalle speculazioni filosofiche che hanno scandito finora la nostra esistenza. Quel che propone Rifkin è un radicale rivolgimento di impostazione e la correzione, sia pure parziale, di alcuni capisaldi e principi della stessa disciplina economica, tra cui la teoria generale dell’equilibrio, l’analisi costi-benefici, la definizione restrittiva delle esternalità e i suoi fuorvianti concetti di produttività e di Pil.
“Alla radice di questa trasformazione – leggiamo nel saggio – ci sarà la necessità di temperare o addirittura contestare l’ossessione dominante dei professionisti per l’efficienza e di cominciare a elaborare strumenti e modelli imprenditoriali che pongano l’adattività al centro della disciplina. Soprattutto, la comunità degli affari dovrà rivedere radicalmente il suo rapporto con il mondo naturale concepito come una risorsa e riconsiderare invece la natura come una forza vitale, rispetto alla quale la nostra specie è soltanto una della miriade di specie il cui viaggio sulla Terra ha un valore paragonabile al nostro. Il cambiamento climatico e le crescenti pandemie globali ci hanno insegnato che tutto ciò che facciamo in questo mondo influenza intimamente ogni altra cosa, e viceversa.
Da questo insegnamento, conclude Rifkin, bisogna trarre la consapevolezza che noi non siamo un’entità autonoma che agisce nel mondo, ma che dipendiamo da ogni altra entità vivente e dalla dinamica delle sfere della Terra. A fronte di questa realtà non negoziabile, non si può far altro che ritornare a quella che l’autore chiama: l’esperienza dell’intimità universale.
E’ l’unica strada per “rianimare il respiro della vita”.
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