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Un libro per amico

A cura di Silvano Moffa




Luciano Canfora "Catilina. Una rivoluzione mancata" (Ed. Laterza)

Il giorno 8 novembre del 63 a.C,. Cicerone convocò il senato romano nel tempio di Giove Statore, situato da qualche parte ai piedi del Palatino. Aveva fatto circondare l’edificio da guardie fedeli, reclutate tra i ceti alti, al solo fine di poter sferrare l’attacco contro Catilina senza correre rischi, accusandolo di “cospirazione” contro lo Stato.

Aveva programmato tutto e curato ogni dettaglio per riuscire vincente e segnare così il momento più significativo della sua carriera politica. La denuncia ebbe un esito brillante. Catilina fuggì da Roma e fu ucciso poco dopo da un esercito romano, con tutti i suo seguaci. I suoi sostenitori rimasti in città furono catturati e giustiziati sommariamente. Ma non fu sufficiente. L’ombra di Catilina non smise di incombere sul tramonto delle Repubblica.

Luciano Canfora ripercorre le tappe di una delle vicende più avvincenti e controverse della storia di Roma in un libro di raffinata, documentata e appassionata ricostruzione dei tragici fatti di quel 63 a.C. Lo fa attraverso la rilettura attenta e minuziosa dei documenti arrivati fino a noi, degli scritti dei protagonisti dell’epoca e delle più appassionanti ricostruzioni storiografiche di autori del calibro di Mommsen, Drumann, Ramsey, Lange.

Nel prologo, Canfora offre al lettore una chiave interpretativa degli avvenimenti che segnarono un’epoca partendo dal processo a Gaio Antonio Ibrida, celebrato a Roma nel 59 a.C. Perseguito per il malgoverno in Macedonia, durante il processo emerse “la pavida complicità” del proconsole con Catilina. A conclusione del processo, Antonio fu condannato: in tribunale l’aveva difeso Cicerone. Ricordando il disagio di Cicerone, emerso nel corso di un altro processo, Canfora scrive: “La condanna fu festeggiata in modo spettacolare da parte di tanti, già seguaci di Catilina o fedeli alla sua memoria: la tomba di Catilina fu ricoperta di fiori e ci furono un banchetto e libagioni per celebrare la condanna del traditore, catilinario imbelle e fedifrago”.

Vi era dunque un sepulcrum Catilinae, nell’anno 59, e veniva onorato. Si sa quanto, nell’etica e nella prassi romane, avesse valore politico un monumento funebre. Quel monumento diventa un punto di riferimento e probabilmente non ne avremmo saputo nulla se non fosse stato lo stesso Cicerone a svelarlo nella Pro Flacco, mostrando tutto il suo disappunto per quelle scene di festeggiamento e di onore della memoria di Catilina. A rafforzare l’importanza di quel sepolcro, Canfora suggerisce un interessante raffronto. Le ceneri di Cesare, da poco assassinato – e prevaleva ancora nell’opinione pubblica l’idea che si fosse trattato di un ‘tirannicidio’ attuato da eroici ‘liberatori’ – vennero vegliate per notti e notti dalla comunità ebraica di Roma, memore dell’onta subita dalla profanazione del Tempio e del massacro lì attuato da Pompeo, a Gerusalemme, vent’anni prima. Ma il sepolcro di Catilina è forse ancor più incisivo. Egli non ebbe eredi di sua discendenza. Viveva certo Orestilla, la bella e amatissima moglie da lui affidata alla protezione di un avversario che gli era stato amico: Quinto Lutazio Catulo. Non sappiamo per iniziativa di chi quel sepolcro sia sorto. Forse era un cenotafio. La testa di Catilina (secondo Dione Cassio) fu tagliata e portata a Roma, ma forse il corpo fu reso, da mano pietosa, alla vedova e cremato. Qualcosa del genere avvenne sul suolo di Egitto, per il corpo decapitato di Pompeo. Insomma, annota Canfora: “Se non fosse per la Pro Flacco, la notizia del sepulcrum Catilinae si sarebbe persa. E’ un tipico esempio di come un frammento di verità, sfuggito alla granitica compattezza delle verità ufficiali, possa illuminare improvvisamente quella parte di accaduto che i vincitori pretendono, di norma, di cancellare per sempre”.

L’azione dispiegata da Catilina mirante alla conquista del potere si svolse in due fasi: quella politica fino alla sconfitta elettorale (fine ottobre del 63 a.C.) e quella militare culminata nella morte, sua e dei suoi seguaci, in battaglia, nei pressi di Pistoia, nel gennaio (o non molto dopo) del 62. La ‘congiura’ ci sarebbe stata nella prima fase. Sulle dimensioni e sulla durata (sul momento iniziale) della ‘congiura’ né gli antichi né i moderni hanno certezze. Lo stesso programma elettorale di Catilina può essere giudicato sovversivo se si accede alle notizie di alcune riunioni segrete da lui organizzate con alcuni seguaci e avallate da Sallustio. Più verosimilmente, nella sfida elettorale le parti in competizione erano entrambe strutturate e si servivano di milizie. Ciò valeva per Catilina come per Cicerone, che nell’occasione della convocazione del Senato per accusare Catilina di voler sovvertire lo Stato, non si era certamente risparmiato nell’avvalersi di un praesidium firmissimum, ossia di milizie private ai suoi ordini. In questa vicenda, lotta legale e strumenti illegali si intrecciano. Ricondotta alle sue caratteristiche reali, osserva Luciano Canfora, la congiura ‘lunga’ va letta secondo la pertinente analisi prospettata da Theodor Mommsen sin dalla prima edizione della sua monumentale “Storia di Roma”. Giustamente Mommsen inquadra l’attivismo politico spesso imprudente e inconcludente di Catilina nello scontro latente e a distanza tra Crasso – che tra l’altro finanziava le campagne elettorali sia di Cesare che di Catilina – e Pompeo, generale sempre più fortunato e vittorioso. “Per mandare ad effetto questa rivoluzione – scrive Mommsen – si tramò a Roma ininterrottamente una congiura dal tempo dell’emanazione delle leggi Gabinia e Manilia fino al ritorno di Pompeo”. E la sua premessa, che va al nocciolo della questione, è: “Il potere militare (cioè, ormai, Pompeo) non poteva essere tenuto efficacemente in scacco se non da un altro potere militare”:

Nel dotto volume, Luciano Canfora rivela la rete complessa dei rapporti tra ottimati, alleanze più apparenti che reali, sotterfugi, false congetture, mezze verità e interessi, a volte coincidenti, più spesso opposti. Una storia che si dipana segnando la fine della Repubblica, vittima delle stesse oligarchie che pure avevano contribuito a tenerla in piedi. Ne è esempio eclatante il rinvio delle elezioni, dal luglio al 21 ottobre, che coincide con la drammatizzazione dello scontro tra Cicerone e Catilina. Cicerone e il suo scomodo, estemporaneo alleato Catone, che avversa il ‘principato’ di Pompeo, saranno, però, vincitori nell’immediato, ma perderanno la partita grazie al colpo di genio di Cesare quando con il “patto privato” (cospiratio secondo Livio) Cesare diventerà console, Cicerone andrà in esilio e Catone finirà fuori gioco. A quel punto la libera res pubblica, se mai era risorta dopo Silla, non regge più.

Nel De officiis, con ritardo rispetto agli eventi, Cicerone rivelerà la sua analisi, concepita molto prima, della crisi finale della Repubblica sulla base della continuità Catilina-Cesare. Ma ormai è troppo tardi per essere creduto. “Quando la questione è tornata a galla – scrive Canfora –(Cesare è stato ucciso, Cicerone pubblica il De conciliis, Sallustio ‘scopre’ che il fatto più grave e più rilevante della storia recente è stato Catilina) la partita che si sta giocando è tutt’altra: riscossa ‘repubblicana’ versus dittatura triunvirale”.

Tornando alla ‘congiura’, destano interesse e curiosità le modalità con cui Cicerone riesce ad imbastire la grave accusa nei confronti di Catilina. La lettura interpretativa delle Catilinariae, del Commentarius e delle opere storiche di Sallustio, Livio, Dione Cassio e di numerosi altri scritti (la bibliografia di Canfora è poderosa) aiuta a ricostruire il clima del tempo e la caratura dei protagonisti non scevri da ambiguità, atteggiamenti doppiogiochisti e scelte politiche dietro le quali risulta spesso difficile distinguere il filo che separa la convenienza personale dall’interesse generale. La tesi su cui ruota lo studio di Canfora è che Catilina, rivoluzionario, farabutto, sovversivo che fosse, offrì a Cicerone la possibilità di ergersi a difensore della Patria, custode e garante della Repubblica. Ma anche Cicerone era arrivato al culmine del potere mettendosi agli ordini degli oligarchi. E, nel momento decisivo dello scontro con Catilina, non esitò ad usare egli stesso mezzi illegali, illudendosi di poter rimanere al vertice della Repubblica. Non aveva capito di essere anche lui una pedina. Da Catilina al cesarismo il passo fu breve. Lo descrive efficacemente Dione Cassio, autore della maggiore opera storiografica su Roma dopo quella di Livio e console insieme con Severo Alessandro nel 229 d.C. Alle sue riflessioni, Canfora lascia le conclusioni del suo studio su Catilina. Dione Cassio fissa sulla base di una pluralità di fonti i profili dei protagonisti della crisi dell’anno 63: Pompeo, Cesare, Catone e Cicerone.

Per quest’ultimo Dione Crasso ricorre ad un verbo che trova in Tucidide: un verbo che significa “fare il doppio gioco”. Tutt’altro che un complimento.

Secondo Canfora, quella di Dione Crasso è “l’ultima e più consapevole grande voce della storiografia antica prima che incominci, dopo la bufera sprigionatasi alla fine della dinastia severiana, un’altra era”.



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