Lo Stato costituzionale contemporaneo trova la sua premessa antropologico- culturale nel riconoscimento e nella tutela della dignità umana" (Häberle).
Suddetta citazione riassume in sé i valori fondamentali dell’ordinamento e si pone come fonte di legittimazione generale di ogni tipo di autorità. In questo senso, la dignità della persona è il fondamento di tutto il sistema costituzionale dei diritti e dei poteri.
Come è facile osservare, il contesto nel quale la restrizione della libertà raggiunge il grado massimo consentito dalla Costituzione è il carcere.
La detenzione, almeno fino alla metà del Settecento, non era una pena da intendersi nel senso odierno del termine, ma rappresentava un mezzo per impedire che l'imputato in attesa di una condanna si sottraesse ad essa. Il carcere, quindi, non era una sede appositamente costruita per la finalità detentiva ma era un edificio, di solito luogo di custodia provvisoria, per imputati in attesa di giudizio o dell’esecuzione della pena. Dalla metà del Settecento in poi si sviluppa una critica non superficiale del sistema tradizionale delle pene, dal modo di istruire i processi penali al ricorso alla tortura.
In tale epoca affioravano alcuni principi innovatori che ispireranno tutti i successivi orientamenti in materia penitenziaria: il principio dell’umanizzazione della pena, intesa come castigo inflitto nei limiti della giustizia e in proporzione al crimine commesso, e non secondo l’arbitrio del giudice; e il principio della pena come mezzo di prevenzione e sicurezza sociale, e non come pubblico spettacolo, deterrente per la sua crudeltà. Nel 1764 Cesare Beccaria pubblica il libro “Dei delitti e delle pene”. Per la prima volta egli delinea le caratteristiche essenziali del carcere moderno, visto come luogo di recupero: la pena assume valore di dissuasione a commettere il reato, non più solo una punizione; le torture vengono bandite come brutali ed inutili; la pena di morte comincia a diventare anacronista e crudele, senza valore preventivo né inibitorio. Il suo pensiero è estremamente innovativo anche nella nuova concezione dell’accusato e del relativo approccio alle indagini. Infatti la colpevolezza dell’accusato è da dimostrare: finché questo non accade il soggetto è innocente.
Nel momento in cui la responsabilità è accertata la pena migliore è l’incarcerazione, anche per l’uniformità sociale che questa garantisce: “era anche un metodo sicuro per uniformare la pena tra coloro che avevano i mezzi per pagare un’ammenda e coloro che non li avevano, dato che i primi sarebbero stati soggetti alle stesse condizioni dei secondi”.
L’assegnazione della pena doveva essere immediata, il miglior deterrente, infatti, non era la crudeltà della pena inflitta, ma la certezza che la pena venisse erogata nel momento in cui si commetteva un reato.
Con l'affermarsi della detenzione come pena e non come mezzo per l'esercizio della potestà punitiva, a partire dalla seconda metà del Settecento si fanno strada diverse teorie che hanno tutte in comune l'intento di razionalizzare le condizioni delle carceri e di cercare di abolirne gli aspetti più violenti (tortura e pena di morte) tipici delle società di antico regime. Questo fermento di idee generatosi nell’ambito del movimento illuminista porterà alla consapevolezza della necessità di riforme penitenziarie volte alla trasformazione delle prigioni da luoghi di crudeltà in luoghi di rigenerazione del reo.
A partire dal XVIII secolo la dottrina giuridica illuminista rifiuta il principio della pena come punizione e adotta quello della pena come rieducazione.
E’ in questo contesto che nella seconda metà del ‘800, in Italia, inizia ad affermarsi una nuova concezione del carcere, che viene inteso come luogo fisico di espiazione della pena anziché come sede di custodia provvisoria, di conseguenza emerge con forza la necessità di realizzare edifici concepiti come veri e propri reclusori dotati di caratteristiche specifiche e ben definite.
In questo quadro vengono emanati una serie di concorsi nazionali e internazionali volti alla progettazione di nuove carceri giudiziarie nelle principali città italiane. E’ a seguito di queste iniziative concorsuali che, anche in considerazione della necessità di rispondere all’annosa questione di un’idonea sistemazione dei propri detenuti, la città di Perugia decide di dotarsi di un un nuovo edificio carcerario.
L’ex carcere ha rappresentato per quasi 140 anni una barriera materiale impenetrabile, e da quindici anni a questa parte, un vuoto irriconoscibile, tanto che la semplice azione di varcarne il portone d’ingresso, violandone la riservatezza, è carica di forti connotazioni simboliche che evocano molte emozioni: parliamo di una struttura immane, dove perdere l’orientamento è semplicissimo… ci vogliono almeno 6-7 ore per visitarlo e fotografarlo.
Di fatto, la storia dell’ex carcere maschile di Perugia ha inizio nel 1853, quando il Delegato Pontificio ordinò verbalmente all’ingegner Delegatizio la compilazione di un progetto in località dietro il Tribunale, ma il progetto non viene elaborato e la vicenda ha seguito solo nell’agosto 1857, momento in cui, sulla scia della visita di Pio IX a Perugia, l’ingegnere Delegatizio Paolo Liverani ebbe ordine di compilare un relativo progetto per una semplice custodia preventiva, Liverani espleta l’incarico in tempi rapidissimi, restituendo nel breve volgere di cinque mesi il progetto di una struttura reclusoria che tuttavia, seppure “capace per 200 detenuti”, non soddisfa pienamente le aspettative: parallelamente, infatti, il pontefice richiede la costruzione di un nuovo stabilimento carcerario da erigersi secondo il sistema cellulare progettato dal signor ingegnere cav. Filippo Navona.
Nel settembre 1864, il Comune cede gratuitamente al Regio Governo il terreno per l’edificazione del nuovo Carcere Giudiziario.
La richiesta di ideare il progetto di massima di un carcere capace di accogliere 340-350 detenuti viene avanzata all’arch. Polani, demandando per ragioni di convenienza la progettazione esecutiva all’Ufficio Tecnico della Provincia.
E l’architetto, recatosi personalmente a Perugia per vedere se l’area accennata possa essere senza inconvenienti definitivamente scelta all’uopo, accetta l’incarico.
Nonostante controversie, iter burocratico, successive progettazioni e modifiche, alla fine del 1870 l’edificio ha ormai raggiunto il suo assetto definitivo e le successive modifiche, esterne e interne, non ne alterano l’impianto complessivo: nel novembre 1871 viene completato il cammino di ronda al disopra del muro di cinta; nel dicembre dello stesso anno Guglielmo Calderini si aggiudica l’appalto per l’ampliamento dell’avancorpo d’ingresso; nel 1874 alcuni grandi ambienti vengono suddivisi e trasformati in celle singole; nel 1876 vengono bonificate le strutture fondali.
L’ex Carcere Giudiziario di Perugia (fin dall’inizio destinato a reclusorio maschile) è giunto ai nostri giorni pressoché intatto anche se, nel corso dei suoi quasi 150 anni di vita, è stato soggetto a ripetuti ammodernamenti funzionali, caso per caso imposti dal deterioramento conseguente alla continuità d’uso o indotti dalle rinnovate esigenze di vivibilità, tanto all’interno quanto all’esterno.
Ciò nonostante, già nel secondo dopoguerra gli spazi dell’edificio risultano inadeguati rispetto alle moderne esigenze igieniche e sociali, tanto che nel 1961 l’Amministrazione comunale, manifestando per la prima volta l’intenzione di delocalizzare il complesso carcerario, redige un progetto urbanistico volto a promuovere l’area del carcere da cesura del tessuto urbano a cerniera dei percorsi pedonali.
Il progetto, proponendosi di eliminare la frattura verticale data dai diversi dislivelli e di migliorare i collegamenti tra il centro storico e la periferia, prevede la realizzazione di un terminal trasportistico di scambio, di un parcheggio pubblico a rotazione e di un sistema di percorsi pedonali di collegamento con l’acropoli.
Tuttavia, se nell’arco di venti anni tutte queste previsioni sono attuate (dalla stazione degli autobus extraurbani al parcheggio interrato di piazza dei Partigiani) e addirittura perfezionate (la risalita meccanica interna alla rocca Paolina), l’ipotesi di trasformazione dell’edificio carcerario rimane sulla carta, stimolando non solo il dibattito dell’opinione pubblica, ma anche il contributo del mondo accademico. Per tutti gli anni novanta, infatti, l’area è oggetto privilegiato di studio da parte dell’Istituto di Disegno Architettura Urbanistica della Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Perugia attraverso un’intensa attività didattica e di ricerca dedicata, suggellata dalla presentazione pubblica dei progetti per la riqualificazione dell’edificio e, con esso, dell’intera piazza Partigiani.
Conseguenza di tali iniziative scientifiche è la stipula, nel 1997, di una convenzione di ricerca tra il Provveditorato Regionale alle Opere Pubbliche per l’Umbria e l’Istituto di Disegno Architettura Urbanistica diretto dalla professoressa Adriana Soletti, nel cui ambito sono redatte una serie di proposte progettuali volte alla concentrazione di tutti gli uffici giudiziari operanti a Perugia nell’area dell’ex carcere maschile.
Ma l’iniziativa, nonostante la definitiva dismissione dell’edificio di piazza Partigiani, soppiantato dalla nuova casa circondariale di Capanne (inaugurata nel 2005), e nonostante l’interesse manifestato a più riprese dai diversi soggetti istituzionali, non ha seguito. Fino a quando nel 2013, in occasione della candidatura di Perugia a Capitale Europea della Cultura 2019, l’ex carcere maschile, eletto a landmark del relativo Piano Strategico Culturale, è oggetto di un workshop-concorso promosso dal Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università degli Studi di Perugia, che coinvolge 16 atenei italiani e che prefigura altrettante possibili forme di riuso dell’immobile come Living Hub aperto alla fruizione giovanile ovvero capace di assurgere da luogo della costrizione fisica a luogo della liberazione creativa.
Il workshop-concorso si conclude con la vittoria del progetto contrassegnato dal motto “ev@sione”, ideato dall’Università degli Studi di Camerino, che si propone di contaminare lo schema carcerario mediante operazioni puntuali di demolizione controllata segnalate da appositi dispositivi architettonici. Ma la candidatura di Perugia non ha esito positivo e, non senza malinconia, l’ex carcere maschile torna a essere relegato nell’abbandono in cui versa tutt’ora, seppure nel rinnovato status di “bene culturale” che sempre scaturisce da una profonda indagine conoscitiva.
Nella primavera 2021 la senatrice di Forza Italia Fiammetta Modena ha chiesto alla ministra della Giustizia Cartabia l’elenco delle opere previste nel Recovery Plan per quanto riguarda l'edilizia giudiziaria.
Rispondendo in Commissione la ministra ha riferito che sono previsti "interventi dal punto di vista dell’edilizia a Benevento, Bergamo, Monza, Latina, Perugia, Trani, Velletri, Roma, Venezia, Reggio Calabria, Napoli, Bologna, Genova, Milano, Torino, Bari, Cagliari, Messina, Palermo e Firenze. Ci sono 420 milioni di euro, che si aggiungono ad altri fondi già stanziati".
L'ex carcere di piazza Partigiani, maschile e femminile, è stato individuato sin dal 1997 come luogo dove realizzare la cittadella giudiziaria, andando a raccogliere in un'unica soluzione tutti gli uffici sparsi tra Fontivegge, via Martire dei lager e il centro storico. Da tempo, inoltre, lì accanto si è spostata la Procura della Repubblica, andando ad occupare gli spazi che una volta erano utilizzati dalla Questura di Perugia.
Il progetto della cittadella giudiziaria, però, incontra anche alcune resistenze, specialmente tra chi vorrebbe la realizzazione, in quegli spazi, di un centro di cultura e arte.
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