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Carla Accardi e l'arte informale


A voler considerare più attentamente le parole di Enzo Cucchi, rilasciate in occasione di una sua “conversazione d’autore” con Bartolomeo Pietromarchi: “Non c’è un problema più complesso, più complicato e più difficile della bellezza e di come ci si lavora”, verrebbe da dargli credito all’istante pensando alle tante soluzioni tentate, a questo proposito, nei secoli, da tutti gli artisti.

L’uomo e la bellezza: che dire? Il ben pensante risponderebbe immantinente: «Dio ha creato l’uomo e l’uomo, per ringraziarLo, ha creato la bellezza». Ma certe cose non si accomodano neanche con le risposte più ispirate. E, allora, un’onda fragorosa di mille pensieri s’abbatte sulla battigia della mente. La bellezza, come suscitata da una domanda sorta e subito interdetta, attraversa in un istante tutto lo scenario di ciò che s’è convenuto di indicare come “bello”: dalle mandrie di bufali e cavalli che corrono come impazzite nelle grotte di Lascaux, forse perché inseguite dagli indomiti e primitivi cacciatori, al “tuffo nell’eternità” di Paestum, al Discobolo di Mirone, al Partenone, al Pantheon, alle pitture di Giotto, alle architetture romaniche e gotiche, a Leonardo, Michelangelo e Raffaello e… , la Bellezza è stata declinata in tutte le prassi consentite all’umana creatività: arte figurativa e non, musicale e letteraria hanno impresso sulla roccia, sulle pareti, sul marmo, sugli spartiti e sulle sudate carte le “immagini” di una realtà di volta in volta imitata , idealizzata, sacralizzata.

Da ultimo, cessati questi ripetuti tentativi di approccio alle manifestazioni estetiche, e con l’avvento delle correnti moderniste, s’è scelta la modalità “interpretativa” a fronte della mutevole ma sempre persistente realtà, intesa nella sua più intima essenza di “essere”, con la quale gli artisti si sono avvicendati e si avvicendano nella speranza di coglierne e tradurne i sensi e i significati più segreti. E la Bellezza, da dea ispiratrice non s’è vista acconciata neppure ad ancella sapienziale, ridotta a schietta parvenza di un passato glorioso.

Quella che era stata un inno di esultanza, celebrata come mai in toccanti rime e versi liberi, specialmente nei poemi più titolati, è andata spegnendosi negli irrefrenabili gemiti degli esistenzialismi i più vari.  Canto me stesso, e celebro me stesso, / E ciò che io suppongo dovete supporlo anche voi / Perché ogni atomo che mi appartiene/ appartiene anche a voi: il trentaset-tenne Walt Whitman stillava così il suo canto poetico, commemorando in pratica sé stesso, la sua individualità, la propria soggettività a cui tutti pure accomunava.

La Bellezza, prima cercata nei meandri della “realtà dell’essere” più profonda, pare ora essersi rifugiata, come sotto copertura, nell’”uomo interiore”, il quale si arrovella nel volerla scoprire e riconoscere nei tanti profili in cui si presume che debba celarsi. E l’arte, investigatrice deputata ab eterno a esaminarne le tracce, non si sottrae da par suo a questo compito immane: non paga di averla celebrata nel tempo passato, si apparecchia al presente nel vederla e considerarla in tutte le molteplici espressioni dell’età contemporanea.

Nella ovvia inutilità di farne la lista esatta, i movimenti artistici dell’età contemporanea (dall’Espressionismo alla Street Art, dal Futurismo alla Land Art e via dicendo), per nulla immotivati e per niente affatto frustrati nelle perseguire intenti estetici di altissimo retaggio, celebrano la Nuova Bellezza collocandola nella “cappelluzza” (come direbbe Leonardo) di degna e onorata sede,  a immemore riflesso e testimonianza di un tempo lacerato, che, nonostante tutto, grazie all’Arte,  non abbandona la speranza – così qualcuno ha profetizzato – di  salvare il mondo.

Gli artisti di ogni epoca, ubbidendo forse ad un istinto inconfessato perché inconsapevole, hanno profuso al riguardo il meglio di sé e, relativamente all’età contemporanea, lo stesso vale anche per gli artisti che in apparenza paiono avulsi da qualsiasi intento escatologico. In altre parole, sia il “pouring” di Pollock che gli “achromes” di Manzoni tradiscono, a ben vedere, un impulso vitale di ricerca, facendo della propria arte un portale attraverso il quale è dato intravvedere tutte le possibili e mai univoche soluzioni agli stessi problemi che travagliano l’umanità.

Non spiacerà, a questo punto, prendere a esempio un’arte in apparenza lontana, come per Pollock e Manzoni, da qualsiasi intento ideologico o metafisico che non sia quello ascrivibile al puro operare estetico. Al riguardo, tra gli innumerevoli artisti “al maschile”, non è fuori luogo – si ritiene – volgere lo sguardo e il pensiero, una tantum ad un artista “al femminile”: Carla Accardi (1924-2014) che, tra l’altro, alla “causa” puramente estetica del suo lavoro informale ha congiunto la “causa” politica del femminismo militante.

Già attivissima a ventidue anni – come annota Flaminio Gualdoni – si reca a Parigi una prima volta con Antonio Sanfilippo, Pietro Consagra, Giulio Turcato, Concetto Maugeri, Ugo Attardi (una bella compagnia di postavanguardisti e molto prossimi al movimento della transavanguardia fondato dal critico Achille Bonito Oliva), e, ventiseienne, è già presente alla XXIV Biennale di Venezia. Il suo resterà per tutta la vita un impegno accanito, alla ricerca continua e affannosa di soluzioni tecniche (i materiali, i linguaggi, i colori, le installazioni) che rendessero al meglio il significato dei suoi intenti creativi.  La ricerca, tuttavia, legata ad una forte volontà di rinnovamento, resta, così, la cifra dominante della sua arte.

A questo riguardo, a voler commentare le opere più significative della Accardi, viene, provvidenziale, dal critico Germano Celant, un aiuto insperato. Nel suo Libro Carla Accardi. La vita delle forme, egli conduce un’accurata analisi della produzione dell’artista e fornisce al lettore bene interessato una sorta di guida per tentare di decifrarne, almeno in parte, i lavori.

Intanto, Celant inquadra la figura dell’Accardi nella prospettiva significativa della relazione tra arte e vita. Non si tratta di un’arte avulsa dai sentimenti e dalle esperienze dell’autrice: essa, semmai, esprime proprio questi sentimenti e queste esperienze. Le opere, allora, possono essere viste come indubbi momenti autobiografici, che le loro forme astratte non riescono a celare bensì ne suggeriscono la portata. E questo è solo il primo punto: ciò lo si può vedere – suggerisce il critico – nel dipinto Composizione rossa (1959) dove il colore rosso rappresenta la rabbia e la frustrazione dell’artista; come, d’altro canto, in Frammenti di un discorso amoroso (1962) i colori vivaci approdano a significare gioia e amore.

L’interpretazione di Celant, sempre puntuale e suggestiva, avanza nell’attraversare il portale dei simboli alla ricerca dei relativi e più acconci significati. Così in Senza titolo (1975), dove le forme geometriche sono disposte in modo casuale, egli accredita la tesi che rappresentino la visione del mondo dell’artista, colto come luogo di cambiamento e trasformazione.

La “guida” si fa ancor più generosa accompagnatrice nell’esplorazione del mondo accardiano. In Narciso (1969) l’autrice si rifà alla sua immagine riflessa in uno specchio? Ebbene, qui occorre pensare che ella intenda accostarsi ai temi dell’autocoscienza e dell’identità. In Lavoro con il ferro (1970) il critico vede nel ferro utilizzato dall’autrice la sua forza e la sua determinazione. Infine, a mo’ di ultima ma non inutile suggestione, in La stanza di Carla, che illustra la camera da letto della stessa artista, il critico vede il luogo tipico dell’intimità e della riflessione.

Non occorre – ciò si capisce agevolmente – assumere alla lettera i suggerimenti volenterosamente forniti da Germano Celant. Ma un tributo di meritata riconoscenza urge pure riconoscerglielo. Ha agevolato l’appassionato osservatore nel munirlo di qualche chiavetta di lettura nel momento in cui si accosta alle espressioni dell’arte contemporanea: i tanti simboli seminati a iosa sulle sue superfici e sulle sue installazioni appariranno, in qualche caso, meno ermetici e più abbordabili. L’arte può assurgere a divenire in questo modo, da mera “imago picta” a “tabula cogitans” capace di sorprendere e coinvolgere ogni osservatore.



 

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