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Immagine del redattoreGennaro Malgieri

Schiavi dell'avidità dissipiamo le nostre esistenze

Sacrifichiamo ogni giorno consistenti porzioni della nostra libertà sull’altare dell’avere.

Ezra Pound

E naturalmente riteniamo per questo di essere più liberi dal momento che facciamo coincidere, impropriamente, l’estensione della libertà con il maggior possesso di beni.

Neppure ci sfiora il pensiero che essere liberi è una dimensione spirituale che poco o niente ha a che fare con la materialità cui siamo dediti nel soddisfare il nostro istinto predatorio. Ed è così che un po’ alla volta ci abbrutiamo lasciandoci attrarre dall’accaparramento di averi verso i quali maturiamo una sorta di idolatria. L’avidità è uno segni distintivi del nostro agire in un tempo nel quale soltanto chi più ha conta.

In effetti non ci si ferma davanti a nulla. Si guarda davanti e si scorgono praterie da cavalcare senza mai chiedersi fin dove spingersi.

Spesso nella corsa si travolge ogni cosa: affetti, amori, dolori. Ma che cosa importa se il fine è la “potenza” a portata di mano.

Prendere tutto ciò che si può e fino a quando si può.

È questa l’etica che sta mandando il mondo a rotoli.

Non so se la finanza sia una manifestazione demoniaca in sé, ma l’uso che se ne fa lo è di certo poiché i miraggi che diffonde annichiliscono chiunque, tanto coloro che la usano ritenendo di essere immuni dalle sue deviazioni quanto coloro che vengono usati incapaci di comprendere fin dove può portare la “gioia” di possedere a discapito, evidentemente, di altri che per questo saranno inevitabilmente vittime sfruttate. Il sistema è apparentemente innocuo. Ma solo apparentemente.

In realtà è perverso come tutto ciò che si costruisce nell’incuria di ciò che viene sottratto agli altri, ai più deboli, ai meno protetti.

Si distruggono così patrimoni onestamente accumulati da generazioni perché da essi si pretende di più; si devastano aree del Pianeta poiché le risorse naturali vengono considerate a disposizione di chi vuole arricchirsi e sarebbe un peccato per loro non farlo; si tengono in cattività popolazioni facendo crescere dentro di esse bisogni e necessità che mai si sarebbero sognate di avere; si accrescono interessi soltanto come espressioni di una volontà di potenza da esercitare stando in poltrona.

Nella nostra quotidianità, quando l’avidità si mostra nuda e fragile come mai lo è stata nel tempo della modernità, abituata a viaggiare sulle autostrade telematiche ed elettroniche, noi tutti ci sentiamo più deboli ed esposti, poiché nel corso del tempo abbiamo maturato, magari inconsapevolmente, la certezza che nulla avrebbe potuto far cambiare il corso delle cose e la nostra economia, le nostre abitudini elementari, i nostri stili di vita si sarebbero dovuti conformare chissà per quanto tempo ai diktat degli gnomi della finanza i quali,

oltretutto, ci gratificano con le briciole che cadono dal loro tavolo e imbandiscono mercati lussureggianti a nostra completa disposizione tanto da indurci a pensare che il benessere sarebbe stato infinito.

All’improvviso abbiamo scoperto che non è così. E la nostra debolezza si è rivelata come una malattia infantile: spaventati stiamo raccogliendo le nostre improvvise insicurezze sperando di salvare il salvabile, mentre, a livelli più alti, a quegli stessi livelli dove è stata programmata la catastrofe, si pensa, con la disinvoltura degna delle canaglie, come mutare indirizzo, come far convivere le esigenze della produzione reale con quelle del profitto, in che modo restituire a chi ne è stato spogliato le risorse cui ha diritto. E si dice che il mondo di domani non assomiglierà affatto a quello che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni.

Pauperismo? Non è questa la ricetta per abbattere le storture derivanti dalla religione dell’avidità. Ma la sobrietà, sì. E se ci fossero Stati tali da non soggiacere alle logiche del liberismo selvaggio, del capitalismo più ottuso, dell’ingordigia di pochi, non si limiterebbero a intervenire con le risorse di tutti per sostenere i sistemi bancari, ma attuerebbero riforme, nella sfera personale, tali da indurre a una educazione, in linea con il diritto naturale, soprattutto le giovani generazioni abbagliate dal mito della ricchezza facile, dei consumi inutili, dello sperpero delle risorse.

Ma l’avidità ha prodotto un altro fenomeno che si tende a nascondere o, quando si palesa, lo si addebita soltanto a qualche delinquente che trasgredisce la legge penale sul punto: l’usura. Siamo proprio certi che il sistema mondiale della finanza non sia imputabile di questo orrendo delitto non perseguibile a livelli planetari? Sostanzialmente l’usura è una tassa prelevata sul potere d’acquisto senza riguardo alla produzione, spesso neppure considerando la possibilità di produrre: la banca dei Medici fallì per questo. E oggi?

Oggi la storia non la legge più nessuno. Speriamo che qualcuno nelle ore di disperazione segnate da guerra, pandemia, violenza, povertà, legga almeno la poesia.

E in particolare un Canto di Ezra Pound, a dimostrazione che i poeti sono più avanti degli economisti e dei politici.

Il grande poeta americano scriveva: «Con usura nessuno ha una solida casa/ di pietra squadrata e liscia/ per istoriarne la facciata,/ con usura/ non v’è chiesa con affreschi di paradiso/ (...) con usura/ la lana non giunge al mercato/ e le pecore non rendono/ peggio della peste è l’usura/ (...) Usura arrugginisce il cesello/ arrugginisce arte e artigianato/ tarla la tela nel telaio, nessuno/ apprende l’arte di intessere l’oro nell’ordito/ (...) Usura soffoca il figlio nel ventre/ arresta il giovane drudo,/ cede il letto a vecchi decrepiti,/ si frappone tra i giovani sposi/ contro natura/ Ad Eleusi han portato puttane/ Carogne crapulano/ ospiti d’usura».

L’usura è figlia dell’avidità. Estirpando questa si estirpa quella.

Ma c’è qualcuno, nel deserto dove non fiorisce la pietà e neppure l’interesse alla sopravvivenza sembra che non spunti tra dune pietrificate, capace di comprendere che non è più tempo di manovre d’aggiustamento, di espedienti tecno-finanziari, di rattoppi, ma di rivoluzione delle coscienze il cui compimento dovrebbe risolversi in una nuova cultura, la cultura dello spirito?

È questa, alla prova dei fatti, la vera forza dell’ordine naturale sulla quale modellare l’economia di tutti, un’economia includente e non escludente, legata al merito e all’intelligenza, umana, perfino troppo umana (non sarà mai troppo), creatrice di forme non soltanto di sostentamento, ma di magnificenze tali da segnare un’era nuova.

L’economia del reale, insomma, quella che fa produrre e vendere e scambiare e conoscere.

Ho incontrato, tempo fa, dispersi nomadi in un deserto attorno a un fuoco attenti a far bollire il tè.

Un po’ di formaggio di capra, qualche oliva, due datteri. E poi la musica; una musica malinconica eppure esaltante prodotta da suonatori che mai avevano studiato l’armonia: ce l’avevano nel cuore. Sopra di noi il cielo che, con il passare delle ore, diventava sempre più azzurro fino a diventare blu, quasi nero punteggiato da stelle. Qualcuno raccontava storie che non capivo, con la leggerezza di chi tramanda brandelli di vita ai più giovani. Wall Street non esisteva. E non esistevano molte altre inutili cose a cui abbiamo sacrificato la nostra civiltà di esseri liberi.

Talvolta ritorno con la memoria a quell’esperienza, ma non vorrei mai rinunciare a quello che sono.

Eppure il mondo in cui vivo mi è più estraneo del mondo dei nomadi che cinque volte al giorno pregano il loro Dio e lo ringraziano del pochissimo che hanno.

Non so se sono felici.

Certo l’angoscia del possesso non li tiene prigionieri e godono della notte, delle storie, della musica, dell’amore e di un bicchiere di tè sorseggiato ai margini della disperazione occidentale.


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