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STATO - REGIONI, RAPPORTO DIFFICILE

Immagine del redattore: Mario LandolfiMario Landolfi

Aggiornamento: 2 mar 2023

Esiste più di un vizio di fondo nel dibattito acceso dalla gestione della pandemia sul rapporto tra Stato e Regione.

Il primo e più epidermico consiste nella sua politicizzazione: immaginare, cioè, che ad animare lo scontro tra governo e governatori sia il colore delle rispettive casacche partitiche.

Vi contribuisce certamente, ma non ne è l’innesco. Il secondo è credere che il riparto delle competenze tra autorità centrale e territoriale necessiti soprattutto di una correzione quantitativa, di un più accorto e sapiente dosaggio dei poteri detenuti dall’una o dall’altra in maniera eccessiva o eccessivamente scarsa. Magari fosse. In realtà, il Titolo V che dal 2001 (anno in cui fu approvato con un colpo di coda della sinistra) figura nella nostra Costituzione è inficiato ab imis e cioè sin nella sua utopistica pretesa di trasformare in “federale” uno Stato unitario.

Non esiste infatti al mondo un solo Stato che abbia compiuto questo percorso senza frantumarsi. E quelli che lo hanno intrapreso è solo perché costretti da irrimediabili linee di frattura di tipo storico, etnico, linguistico o religioso. L’Italia federalista era un’opzione tra quelle disponibili sullo scaffale del Risorgimento. La propugnava, ad esempio, Carlo Cattaneo. Ma se ne scelse un’altra. Allora era possibile perché l’Italia era una nazione senza Stato.

Il lombardo Cattaneo voleva federarsi con quelli che considerava i suoi fratelli napoletani, romani, siciliani, sardi e marchigiani, coi quali condivideva storia, lingua e religione ma non l’identica condizione di suddito o di cittadino. Federalista sì, ma per unire quel che era diviso. L’esatto contrario di quel che si prefigge di realizzare il “federalismo” dei nostri giorni: differenziare fino a separare territori di una medesima nazione. E da questa banale constatazione che occorre partire se si vuole uscire dal desolante panorama di “soluzioni” a base di sintesi arrabbocciate (presidenzialismo/federalismo) o di confusi rimedi dettati esclusivamente dalla propaganda. Tanto più che il Titolo V ha introdotto in Costituzione una dinamica para-secessionista, i cui effetti sono già in atto sotto forma di richiesta di maggiore autonomia (e risorse) da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Solo l’irruzione del Covid ne ha bloccato il percorso. Dovesse essere portato a compimento, quale sarebbe il passo successivo? Il punto è questo: dinamiche come quelle innescate dall’attuale Titolo V si sa dove cominciano, ma non dove finiscono perché, si sa, la politica spaccia droghe e non distribuisce vaccini. Nel senso che un po’ di decentramento non ti immunizza dalla richiesta di autonomia, così come la concessione di un po’ di autonomia non ti guarisce dalla pretesa dell’indipendenza e quest’ultima non ti salva dalla secessione. La modica quantità è soluzione che mal s’attaglia a tali processi.

Lo sanno bene a Madrid, dove il governo spagnolo è tuttora alle prese con i pruriti indipendentistici della Catalogna. Chi può garantire che domani non accada anche in Italia? Nessuno, anche perché il nostro Paese è attraversato, e non da ora, da intrinseche fragilità: è arrivato tardi e male ad unità. In più ha una memoria collettiva avvelenata dai fumi mefitici di un interminabile dopoguerra che in compenso assicurano a minoranze politiche e a ristrette élite culturali formidabili rendite di posizioni in termini politici e personali. Processo unitario accidentato e poi delegittimato e memoria storica lacerata. Un miscela micidiale. È il motivo per il quale il tema dell’autonomia territoriale va rivisto da cima a fondo. Non basta il cacciavite. Con il Titolo V non è questione di manutenzione. Sarebbe inutile. Va cancellato. E neanche basterebbe se parallelamente non si sviluppasse una nuova narrazione pubblica in grado di rifondare il patto tra italiani e quello tra Stato e territori. È necessario.

Scontiamo, come cittadini, decenni di “lettura territoriale” a senso unico, basata su presunte locomotive e pretese zavorre o su ceti produttivi contrapposti a settori assistiti. È vero solo in parte. Per l’altra parte, ben più cospicua, è il risultato di scelte miopi e territorialmente orientate. Esisteva un Sud vocato alla fatica scomparso dalla narrazione ufficiale e che sopravvive a malapena nello sbiadito ricordo di masse di contadini costretti a diventare operai.

Non solo un cambio di lavoro, ma di prospettiva e di visione del mondo, si potrebbe dire. Ma così imponeva quel modello di sviluppo, a sua volta funzionale ad accreditare la vulgata di un Nord progressista, industrializzato, laico che trascinava un Sud arretrato perché agricolo e bigotto perché tradizionalista. Ora non esistono né l’uno e nell’altro, e questo rende molto più reale il pericolo che a breve non esisterà neppure più l’Italia.

È il motivo per il quale occorre un nuovo scatto di reni. Siamo di fronte ad un tornante decisivo della nostra storia. Non ne usciamo con un altro governo né con nuove elezioni, rimedi invero assai ordinari. Ma qui di ordinario non è rimasto più nulla. E di straordinario, cioè adeguato al momento, c’è solo lo strumento di una nuova assemblea costituente.

La prima ci fu nel 1946, necessitata dall’obiettivo di rifondare le istituzioni dopo una lunga e rovinosa guerra. A ben guardare, oggi non è poi tanto diverso. Le macerie non sono materiali, ma ad ingombrare il nostro passo provvedono quelle morali, sociali, esistenziali. Il Covid ha decimato un’intera generazione, quella della memoria e dell’esperienza, mentre la più giovane difficilmente colmerà le lacune prodotte da una scuola intermittente. In mezzo c’è quella salassata dal più tremendo tracollo economico-finanziario degli ultimi decenni che ha scavato fossati sociali ancor più profondi.

La pandemia come la guerra. Anche come formidabili acceleratori della storia. Un anno fa, il solo pensare ad un debito pubblico europeo era eresia. Oggi il Next Generation Eu ci dice che quella strada è stata intrapresa. Siamo all’interno di un possente vortice da cui usciranno nuovi equilibri internazionali e nuove gerarchie globali. Un motivo in più per ristrutturare la nostra impalcatura istituzionale. Rifondare lo Stato non è il dopo, ma il prima.

E da qui che bisogna cominciare per avere più competitività e meno burocrazia, più cantieri e meno faldoni, più produzione e meno assistenzialismo. L’alternativa è il fallimento di un’intera comunità nazionale. Convinciamocene: non sono più, i nostri, tempi facili. Ma è in quelli difficili che vien fuori la tempra dei popoli.

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